XXI secolo. 3
Gli Interni mossi di Mario Cresci

CASEDI SPETTRI

Servirsi dell’ambiente per dare un’identità ai volti.
Da questo assunto è iniziato nel 1967 il progetto di Mario Cresci dedicato agli Interni mossi.
Visi indistinguibili palesano la loro cultura attraverso il contesto in cui sono inseriti. Nitidi gli oggetti e la loro disposizione nello spazio, sfuggenti i ritratti, tra ricordo e oblio, precarietà e bisogno di stabilità.

Mauro Zanchi

Nel 1967 Mario Cresci mette in azione un’opera antropologica con gli abitanti della Basilicata, interrogandosi col medium della fotografia sul significato delle identità in rapporto con i dati fisici dell’ambiente. Nella serie Interni mossi (del 1967, ripresa poi nel 1974, e continuata ulteriormente a Barbarano Romano, tra il 1978 e il 1979), le figure umane, con i volti resi irriconoscibili dal mosso fotografico, sono colte in interni, dove oggetti e arredi sono a fuoco, come se fungessero da segnalatori di suggestioni rilkiane: «Noi siamo qui forse per dire: casa, / ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutto, / finestra, - / al più: colonne, torre… ma per dire, capisci, / per dire così, come mai le cose stesse / intimamente sapevano d’essere»(1). Gli oggetti nello sfondo dicono qualcosa che la persona non rivela nel suo volto misterioso e irriconoscibile. Queste cose sono tracce e dettagli, che possono essere utili all’osservatore per ricostruire l’identità dei personaggi fotografati o per comprendere le tracce della storia attraverso i manufatti di un determinato luogo(2)

Negli Interni mossi ogni persona pare un’esplicitazione drammatica nella transitorietà dell’esserci. Il volto non è reso visibile attraverso un’identità precisa. Colto entro uno spazio domestico, è in rapporto tra io e mondo, tra soggetto e cultura. Cresci coglie l’attimo in cui l’universale umano assume concreta forma storica, in un determinato tempo e in un luogo geografico.


Autoritratto, dalla serie Interni mossi, Barbarano Romano 1978.