Nel 1967 Mario Cresci mette in azione un’opera antropologica con gli abitanti della Basilicata, interrogandosi col medium della fotografia sul significato delle identità in rapporto con i dati fisici dell’ambiente. Nella serie Interni mossi (del 1967, ripresa poi nel 1974, e continuata ulteriormente a Barbarano Romano, tra il 1978 e il 1979), le figure umane, con i volti resi irriconoscibili dal mosso fotografico, sono colte in interni, dove oggetti e arredi sono a fuoco, come se fungessero da segnalatori di suggestioni rilkiane: «Noi siamo qui forse per dire: casa, / ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutto, / finestra, - / al più: colonne, torre… ma per dire, capisci, / per dire così, come mai le cose stesse / intimamente sapevano d’essere»(1). Gli oggetti nello sfondo dicono qualcosa che la persona non rivela nel suo volto misterioso e irriconoscibile. Queste cose sono tracce e dettagli, che possono essere utili all’osservatore per ricostruire l’identità dei personaggi fotografati o per comprendere le tracce della storia attraverso i manufatti di un determinato luogo(2).
Negli Interni mossi ogni persona pare un’esplicitazione drammatica nella transitorietà dell’esserci. Il volto non è reso visibile attraverso un’identità precisa. Colto entro uno spazio domestico, è in rapporto tra io e mondo, tra soggetto e cultura. Cresci coglie l’attimo in cui l’universale umano assume concreta forma storica, in un determinato tempo e in un luogo geografico.