Marcel Broodthaers (Saint-Gilles, 1924 - Colonia, 1976) non si curava della divisione tra i generi artistici, del creatore “bohémien” e nemmeno dell’unicità dell’opera d’arte: per lui contavano soltanto i fatti e gli uomini che mettono insieme idee. Forse è per questo che non scelse un ruolo ben definito, preferendo accostare all’iniziale attività di poeta e artista quella di fotografo, regista, criticogiornalista, di “finto” direttore di museo, per poi usare i risultati ottenuti da queste diverse esperienze come alfabeto visivo al quale attingere di volta in volta per dare vita al nuovo.
L’importanza di questo raffinato saltimbanco dell’arte, la cui carriera nelle arti visive iniziò a quarant’anni e durò poco più di un decennio, venne
subito compresa dai suoi contemporanei ed ebbe, all’indomani della sua prematura scomparsa, una forte eco. È passato ormai quasi mezzo secolo dal primo
allestimento che Broodthaers fece del Musée d’Art Moderne, Département des Aigles nel suo appartamento a Bruxelles (1968), eppure il suo esempio è più
vivo che mai e le mostre a lui dedicate hanno continuato a susseguirsi in prestigiose istituzioni internazionali: dalla recente rassegna organizzata al
Fridericianum di Kassel (2015) all’ultima grande retrospettiva itinerante ospitata dal MoMA di New York, dal Reina Sofía di Madrid e ora dalla K21-
Kunstsammlung Nordrhein- Westfalen di Düsseldorf (Marcel Broodthaers. Eine Retrospektive, fino all’11 giugno).
Raccogliendo l’eredità di Duchamp, tra anni Sessanta e Settanta l’artista belga portò avanti il discorso attorno al museo come luogo principe dove si
compie l’egemonia culturale del potere costituito, facendone il suo primo, benché non unico, oggetto d’indagine(*). Attraverso la messa in scena delle pratiche e delle logiche espositive come opere d’arte, Broodthaers fu tra i primi anticipatori di
quell’attitudine che, soltanto a partire dalla metà degli anni Ottanta, sarebbe stata definita “critica istituzionale”. Questa attitudine, che interessa
il rapporto tra artista e museo, è da mettere in stretta relazione con un’altra strategia critica - anch’essa iniziata con le avanguardie novecentesche,
sebbene risalente alla seconda metà dell’Ottocento -, quella dell’artista come curatore, di cui egli fu ugualmente un antesignano.