del paesaggio, per una pittura urbana dove, come in Via delle Torricelle o nella straordinaria Villa fiorentina, troviamo un’armonia metafisica di volumi e di spazi misurati con un nitore volumetrico e prospettico che rimanda a Piero della Francesca, in anni in cui era ormai consolidata la sua riscoperta.
Nel 1877 la presentazione all’Esposizione nazionale di Napoli e l’acquisto da parte della Casa reale di Il sobborgo di Porta adriana a Ravenna coincideva con l’interesse da parte del più autorevole esponente della critica ufficiale Camillo Boito che, nel volume Pittura e scultura d’oggi pubblicato nello stesso anno, lo consacrava come l’«alfiere, anzi in qualche parte, il capitano » dell’«arte nuova in Firenze». Dopo aver soddisfatto la «gran voglia di correre a Parigi», era arrivato al superamento della sperimentazione macchiaiola, avendo realizzato che «la natura non procede sempre a contrasti sfacciati, a botte di colore e di luce: s’è rimesso quindi a studiarla da sé coraggiosamente […] È tornato alle mezze tinte, alle finezze, alle meticolosità nei rapporti dei toni, alle ricerche delicatissime dell’ambiente».Un analogo riconoscimento gli verrà presto anche da chi aveva condiviso con lui le antiche battaglie macchiaiole, Adriano Cecioni che gli dedicava un importante articolo monografico, in una serie dedicata a I Macchiaiuoli sulla “Domenica Letteraria” nel 1884 dove sottolineava, con grande perspicacia rispetto alla sua maniera ultima, come «il pregio maggiore ed assoluto della pittura di Signorini è il sentimento dell’intonazione: in tutti i suoi lavori, anche nei più scorretti, il sentimento dell’intonazione non manca mai. Tutto quello che c’è di meno in lui dal lato della forma si ritrova in più dal lato del sentimentale».
All’ampio e approfondito profilo di Cecioni che aveva coinciso nel 1884 con l’esposizione a Torino di Il ghetto a Firenze e il suo acquisto da parte della Commissione governativa per la Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, seguiva l’anno dopo il ritratto lieve e ironico con cui Martelli ricordava l’amico «vero figlio d’arte» che si era fatto «artista prima in famiglia e dopo da sé», che si era tuffato «arditamente nella cospirazione mazziniana» per poi diventare, dopo un iniziale omaggio alla moda storica, uno «dei primi apostoli» della Macchia.
