Era collerico, insoddisfatto, di rado considerava finiti i suoi dipinti. Ossessivo, nell’incessante riflessione sulla natura e sulle sue variazioni: riflessione nel più ambivalente senso del termine, come spiega Ulf Küster, curatore della mostra Monet (Riehen, Basilea, Fondation Beyeler, fino al 28 maggio).
Per riflessione s’intende impressione soggettiva ma anche riverbero della luce; riflesso della mente e riflesso della natura, giochi di ombre. La mostra è di fatto centrata sulla natura (solo tre tele presentano la figura umana) e su un periodo preciso, per quanto ampio, della prolifica attività di Monet (Parigi 1840 - Giverny 1926). Sessanta capolavori da musei e collezioni private documentano i lavori dal 1880, quando la sua avventura impressionista è già in gran parte conclusa, al 1905, quando ormai il tema ricorrente è lo stagno delle ninfee. Dagli anni Ottanta Monet vive un’empatia quasi ipnotica con la natura. Dopo Friedrich, forse solo Turner, prima di lui, era riuscito a esprimere l’indefinibile variazione atmosferica delle nuvole, ma nessuno come Monet ha saputo rendere la staticità impenetrabile dei paesaggi nebbiosi, i movimenti impercettibili dei riflessi e dei tremolii degli alberi e delle nuvole sull’acqua, delle alghe, dei salici piangenti nella foschia mattutina. Niente ci pare più rilassante e meditativo che ammirare le sue opere con la musica liquida, acquatica, ondivaga, di Debussy come sottofondo. Opere che talvolta, se capovolte, assumono la stessa valenza: fate un prova girando la rivista a testa in giù, e guardate Mattino sulla Senna. Monet era di poche parole, conduceva una vita ritmata, dal levar del sole al tramonto. «Quando il sole tramonta, cosa volete che faccia se non andare a dormire», confidò al cineasta Sacha Guitry, che lo immortalò nel 1919 negli unici fotogrammi noti dell’artista al lavoro “en plein air”.
