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Secoli di capolavori venduti: un bilancio

L’ARTE CHEHA PRESO IL VOLO

Collezioni disperse, opere smembrate, vendute, trafugate. E così l’Italia è ormai orfana di un patrimonio inestimabile. A Venezia non è rimasto neppure il dieci per cento dei beni archeologici raccolti nel tempo, a Genova sono sopravvissuti mille, forse, su diecimila dipinti commissionati tra Cinque-Seicento. Solo due tra i tanti esempi di vuoti incolmabili che “vantano”, purtroppo, una lunga storia.

Fabio Isman

L'arte in Italia non va soltanto a ruba (i Carabinieri per la tutela del patrimonio culturale danno la caccia a tre milioni e mezzo di oggetti, e dal 1970 hanno recuperato un milione di antichità scavate di frodo), ma va anche all’estero. La si è sempre venduta, e ancora oggi si continua a farlo; almeno, fino all’altro ieri. Dal Trecento in poi, e a ogni latitudine, le opere sono state rimosse dalle loro collocazioni originarie per mille motivi: perché mutano la moda e il gusto; cambiano gli spazi delle abitazioni e dei palazzi; ai figli non piace quanto raccolto dai padri. O anche solo per la necessità di vile denaro: perché le famiglie dei committenti e collezionisti vanno in rovina, e spesso ai nobili non resta che il blasone. Ma perfino per l’insistenza degli antiquari, italiani e stranieri, disposti a tutto pur di ottenere la preda agognata. Lasciando perdere, poi, le razzie di Napoleone o di Hitler. Si vende anche per ragioni singolari e curiose: i Colonna, a Roma, trecentoventi capolavori a fine Settecento, quando Pio VI Braschi chiede loro di armare due reggimenti e fornirgli «dodici cannoni in bronzo», mentre Napoleone esige nuove tasse; l’ultimo dei Pisani, a Venezia, un immenso capolavoro di Veronese, La famiglia di Dario ai piedi di Alessandro (ora alla National Gallery di Londra), perché, morto lui, le «tre figlie maritate» non «abbiano a quistionare sopra un quadro indivisibile »; Cornelia Barberini Colonna, il famosissimo Vaso Portland nel 1782, solo perché era «sfortunata alle carte». 


La prima asta d’arte di cui si ha notizia avviene a Venezia nel 1439


Scrivendo L’Italia dell’arte venduta: capolavori fuggiti, collezioni disperse(*), quando ho messo in fila gli appunti sono allibito. «A Venezia, non è rimasto che il sette per cento dell’archeologia accumulata nei secoli d’oro», dice Irene Favaretto, già prorettore all’Università di Padova; «a Roma, a fine Settecento, esistevano settantacinquemila statue; oggi, circa settemila, di cui tremila in Vaticano», le fa eco l’archeologo Antonio Giuliano. E il direttore dei Musei civici di Genova Piero Boccardo valuta che in nemmeno un secolo, quello «d’oro» per la città ligure tra Cinque e Seicento, la “Superba” commissioni, o raccolga, almeno diecimila dipinti; ma «ne restano forse mille». La studiosa udinese Rosella Lauber ha individuato tutte le venti opere dipinte nel fondamentale anno a Venezia da Antonello da Messina: appena quattro ancora in Italia; e identificate ottantaquattro tra quelle descritte dal 1521 al 1543 da Marcantonio Michiel: nemmeno la metà, il quarantotto per cento, è ancora nella Penisola.


Hitler mentre osserva, negli ultimi giorni dentro il bunker della Cancelleria a Berlino, il plastico del Führermuseum che voleva edificare a Linz.


Jusepe de Ribera, San Pietro penitente (1612-1613 circa), New York, Metropolitan Museum of Art. Uscito dall’Italia, come opera di ignoto emiliano, nel 2011.