«Il bianco nel Sassoferrato, quando è lui non è mai bianco puro, c’è sempre qualche goccia di giallo, di ocra. E lo stesso avviene per altre tonalità: guardandole bene al microscopio, esaminandone dei frammenti, delle scaglie, ci si accorge che i colori, anche rosso e azzurro, hanno mescolati degli altri colori in piccolissime dosi, il che conferisce all’insieme quella specie di patina dorata che non è una patina vera e propria, che non è un effetto atmosferico. E vi dico che questo è un segreto che lui ha imparato da Raffaello Sanzio»(1).
Ferdinand Gregorovius, visitando Perugia nel 1861, rimane colpito dalla ricchezza della basilica di San Pietro: «È ritenuta», scrive, «come la gemma più
preziosa della città, ed è un vero museo della pittura umbra. Contiene splendidi quadri del Perugino, di Orazio Alfani, del Doni, dello Spagna e di
altri maestri, e preziosissime copie delle opere del Perugino e di Raffaello, eseguite dal Sassoferrato»(2). La raccolta di dipinti di Giovan Battista Salvi detto il Sassoferrato, ancora oggi visibile a San Pietro, è la più ampia collezione esistente al
mondo di opere dell’artista marchigiano. In queste opere Sassoferrato si presenta come l’erede di Perugino e Raffaello, di cui replica soggetti e
stile.
Attorno a questi e ad altri capolavori la Fondazione per l’Istruzione agraria, proprietaria del complesso abbaziale, ha organizzato una suggestiva
mostra che espone al pubblico quarantesei opere del pittore marchigiano (Sassoferrato 1609 - Roma 1685) e di altri maestri rinascimentali ai quali il
Sassoferrato si ispirò. L’obiettivo è stato quello di ridare nuova luce a un artista che Adolfo Venturi aveva efficacemente definito «un quattrocentista
smarrito nel Seicento»(3).