Artisti si nasce o si diventa?
Artisti, se si è fortunati, si muore. Tutto quello che viene prima è un lungo percorso per capirci qualcosa.
Qual è stato il momento in cui hai deciso di fare l’artista?
Mi ricordo il giorno preciso: ero sulla strada tra casa e l’ospedale dove lavoravo. C’era una galleria d’arte che esponeva in vetrina degli specchi di
Pistoletto. Mi hanno colpito a tal punto che ho preso coraggio e sono entrato per capirci di più. Da quel giorno l’arte mi si è piantata in testa come
un tarlo, piccolo, irremovibile e vorace.
Padova, Forlì, Milano e New York sono le città dove hai trascorso la tua vita. Queste città hanno in qualche modo influenzato la tua carriera, nel bene o nel male?
Ho sempre tentato di mantenere un certo distacco dalle città dove ho abitato, in modo da vivere sempre in quella condizione di straniero in patria, così
poco confortevole ma allo stesso tempo molto stimolante: sentirsi a casa è un sentimento che ho sempre evitato con cura. Preferisco rimanerne fuori,
come il personaggio di John Wayne alla fine di Sentieri selvaggi.
Quali sono stati i rapporti più importanti per la tua carriera?
Quelli con le persone che mi hanno detto no. È da quei no che si capisce se un’amicizia è disinteressata: è una selezione molto ristretta di persone in
cui ho fiducia cieca. Ho sempre lavorato in squadra e non mi sono mai illuso di poter dare vita a qualcosa senza un dialogo continuo con le persone di
cui mi fido e che stimo. Ho sempre trovato più facile tirare fuori idee dai cappelli altrui, e probabilmente la cosa è reciproca!
Quando hai cominciato a percepire il mondo dell’arte come un sistema?
Non credo di aver mai iniziato, in realtà. Mi suona un po’ come se si parlasse di una cupola mafiosa, quando invece penso si tratti di un
(relativamente) sano meccanismo di relazioni che si basa in parte sul mercato, in parte su idee e la possibilità di realizzarle. Non riesco a vederci
niente di negativo, e per questo non mi piace adottare il termine sistema, a meno che non sia usato in modo totalmente laico, puramente etimologico. Ma
allora perché parlarne?