Letteratura, musica e arte si trasformarono, senza mai tacere; ma la pubblicità fu minata alle radici nella sua vocazione di persuasione al bello, al possesso delle cose e delle emozioni, all’illusione del lusso per tutti. Allo sbandamento e al silenzio pressoché totale dei primi momenti, seguì poi una sorta di rifondazione linguistica, al servizio delle sei campagne per la sottoscrizione dei prestiti di guerra lanciate dal governo italiano tra il dicembre 1914 e il novembre 1919; ma fu il trionfo programmatico della semplificazione comunicativa, dell’aneddotica degli affetti, della banalizzazione ad uso popolare. Perseguendo non più la vendita di un prodotto bensì la sopravvivenza nazionale, le immagini pubblicitarie dovevano essere inequivocabilmente comprensibili e perciò radicalmente semplificate, immediate ed empatiche. Non sorprende pertanto che nel 1917, in occasione del quinto dei prestiti, i bozzetti di autori già affermati come Beltrame, Bonzagni, Bucci, Cappiello, Chini, Dudovich, Sacchetti, Sinopico furono rifiutati dalla commissione di propaganda in favore di creazioni di ignoti - magari disegnatori-soldati -, coerentemente con una strategia che subordinava la qualità estetica all’immediatezza comunicativa.

