È il 1955. All’ospedale di Lagny-sur-Marne, a nord di Parigi, muore un emigrato russo. Solo, sconosciuto e in condizioni di estrema indigenza. Ci era arrivato qualche tempo prima grazie ai vicini di stanza, corsi a soccorrerlo dopo un malore. Viveva, infatti, da anni in una cameretta dell’hôtel de la Rochefoucauld, vicino a Pigalle, dove si diceva che fosse un tipo strano, un aristocratico russo fuggito dalla Rivoluzione. Un mezzo matto, una specie d’artista, fissato col demonio. L’attore Alexander Mgebrov, rintracciato anni dopo, racconterà di lui: «Un giorno che ero andato a fargli visita, mi sussurrò misteriosamente che, da qualche tempo, era occupato a dipingere il diavolo. “Ho tutti gli schizzi al piano di sopra”, disse con uno strano luccichio negli occhi. “Rimango sveglio fino a tarda notte e attendo che appaia. Ho intravisto gli occhi… la coda… persino gli zoccoli… ma non ho ancora visto tutto. Però ho fatto centinaia di schizzi - vuoi vederli?”».
Passano sette anni. Numero magico. Nel 1962 alcuni dipinti, diavoli compresi, tornano alla luce nel Marché de Saint-Ouen, vicino a Saint-Denis, il più
grande mercato delle pulci d’Europa. Luogo che conosco bene e dove vado a fare la corte a qualche antiquario una volta l’anno, cercando di carpirne
piccoli tesori, perché prima o poi, lì, ci passa di tutto (leggere Zazie dans le métro per credere).
Tra i primi a imbattersi in quel materiale e ad acquistarlo sono due collezionisti e appassionati d’arte: Bertrand Collin du Bocage e Georges Martin du
Nord. Sono una quarantina di tele, tutte firmate con un monogramma stilizzato: «K». C’è una cosa che le rende però diverse dalle tante croste nascoste
nel ventre del Marché aux Puces: sono straordinarie, parlano il linguaggio dell’Art Nouveau con gli accenti della cultura russa e rivelano le tracce
innegabili della visione folle di un genio.