Così, forse con una qualche esagerazione, Raffaele Carrieri titolava nel 1947 un articolo in cui raccontava una visita allo studio milanese di piazza Mirabello, dove Marino si era appena stabilito al ritorno dalla Svizzera. Gli anni ticinesi, che avevano così profondamente segnato la sua scultura, erano infatti stati anche una straordinaria apertura sull’orizzonte europeo della critica e delle esposizioni: dopo il successo della prima mostra al Kunstmuseum di Basilea nel 1944 con Germaine Richier e Fritz Wotruba, le sue opere erano state esposte accanto ai maestri della scultura moderna alla Kunsthalle di Berna; erano seguite altre occasioni nel 1945 a Basilea, nel 1946 a Zurigo e infine nuovamente a Basilea, dove nel maggio di quell’anno i suoi disegni erano stati a fianco di quelli di Braque, Derain, Picasso e Lipchitz.
Con l’eco di questi successi internazionali Marino si presentò alla Biennale veneziana del 1948, la prima del dopoguerra, che rappresentava non soltanto una rassegna artistica, ma l’occasione per l’Italia di riconquistare un ruolo internazionale dopo la tragedia della guerra e della dittatura. E a quella Biennale Marino si imponeva per i Cavalieri e le Pomone, vere epifanie di un equilibrio raffinato tra gravità classica e invenzione moderna, tra seduzione delle immagini ed elezione squisita delle forme. Ma il gran premio della scultura, contrariamente a quanto addirittura preannunciato su alcuni periodici, venne attribuito a Manzù e Moore, e ne seguirono polemiche roventi sulla stampa italiana, che considerava solo le opere di Marino degne di una modernità allineata alle avanguardie europee. Quelle polemiche furono inquinate anche da velenose allusioni a manovre di mercato che avrebbero voluto sottrarre il premio a Marino per non intralciare la fortuna di Moore; ma l’artista pistoiese era ormai avviato a un percorso di fama internazionale rispetto al quale l’orizzonte italiano era davvero troppo angusto(31).