sanciva una rinomanza internazionale che a partire dal secondo dopoguerra non aveva conosciuto flessioni, e aveva portato le sue opere nei maggiori musei dell’Europa e degli Stati Uniti(1). Ma proprio in questa straordinaria fortuna deve essere individuato il maggior ostacolo a una corretta comprensione critica dell’artista, poiché sulla complessità dei suoi inizi e delle sue successive sperimentazioni è stata ribaltata una lettura tanto seducente quanto semplificata, che ha determinato una riduzione della sua personalità all’immagine dello scultore di “cavallini” e “Pomone”, e ha costruito per lui il mito dell’artista “fuori dal tempo”, nutrito soltanto del suo genio, impermeabile a ogni scambio con i dibattiti contemporanei(2).
Una posizione questa che appare ancora più incomprensibile a fronte della complessità storica delle epoche che Marino ha attraversato: momenti significativi della storia italiana, dei quali egli ha scandito, con le sue opere, fratture, tensioni e conquiste. Giovane promessa della scultura negli anni Trenta, quando il fascismo promuoveva attraverso le esposizioni nazionali un rapporto organico tra gli intellettuali e le arti; cauto e sensibile nel tempestivo dissenso dalla retorica del regime quando questo si avvierà a posizioni di chiusura politica e culturale; capace, durante gli anni terribili della guerra, di infondere alle opere eseguite nell’esilio svizzero la compassione per una umanità dolente; e infine ambasciatore, a partire dal 1948, di una ritrovata modernità dell’arte italiana, di cui sarà protagonista riconosciuto in Europa e in America.
Questo percorso non poteva avvenire nell’isolamento, se non a prezzo di un esaurirsi della tensione immaginativa e un ripiegamento su formule stereotipe; fu dunque proprio l’intelligenza visiva con cui Marino seppe attraversare la sua epoca, e comprendere le sollecitazioni di volta in volta presenti nel suo ambiente, a garantire la lunga gittata della sua carriera d’artista, dagli anni Trenta agli anni Sessanta del secolo scorso.

