I ritratti rappresentarono per l’artista un ambito dove mettere alla prova la propria sofisticata cultura visiva: dai riferimenti arcaici negli anni Trenta, documentati dal ritratto di Melotti, alla eccentrica riflessione sulla scultura di Daumier, da cui negli anni Cinquanta trasse lo spunto per le esasperazioni quasi caricaturali di Markhof; mentre Madame Melms, chiusa come una crisalide nella sua veste a spirale, risente, durante il soggiorno a Tenero, della vicinanza a Germaine Richier e alle sue sculture segnate da una interpretazione espressionista di Rodin.
Già nel 1938 Marino aveva affidato a una articolata dichiarazione la propria predilezione per il ritratto: «Nel ritratto ho sempre cercato di dare, più che l’espressione o il carattere della persona - anche in ciò che essa ha di più comunicativo, di meno esteriore - la sua “poesia”. Non c’è volto umano in cui questa “poesia” non sia come racchiusa, annidata, solidificata in un tratto, in una prominenza, in una lieve cavità: l’artista deve poterla riconoscere e liberare. In ciò egli è guidato dalla sua sensibilità, dalle sue qualità istintive, di osservazione e di penetrazione. Questa “poesia” l’artista dovrà ricomporla plasticamente, ossia, nel caso particolare della scultura, quest’arte di primitivi, non potrà esprimerla, nella materia prescelta - bronzo pietra cera - e in rapporto ad essa, che per la forma»(43).
A quella data l’eccezionalità della ritrattistica di Marino rispetto alla produzione corrente era già stata sottolineata da Lamberto Vitali, che ne aveva riconosciuto la felice sintesi tra le soluzioni plastiche e le finissime notazioni psicologiche, indicandone un compiuto risultato nel ritratto di Fausto Melotti: l’ironia che si avvertiva nelle pupille appena dilatate e nella lieve inclinazione in avanti del volto stemperava il richiamo alla scultura egizia dell’ovale perfetto impostato sulla forma piramidale del busto(44).
Nella dichiarazione del 1938 si insinuavano motivi più complessi, in accordo a una stagione, quella di “Corrente”, che lo vedeva schierarsi su posizioni segnate da interessi quasi “espressionisti”: egli si esprimeva decisamente contro ogni psicologismo, rivendicando semmai al ritratto un valore di rivelazione, in analogia con quel “pathos immaginativo” che, in quegli stessi anni indicava come chiave di lettura dei Cavalieri e delle figure femminili. È poi significativo che Marino, nel ripercorrere il percorso dell’osservazione condotta dall’artista sul modello usi termini visivi e tridimensionali, «un tratto», «una prominenza», «una lieve cavità» dei dati fisiognomici: un’importante conferma, questa, della sua concretezza di scultore, e un viatico per la verifica sulle opere. I ritratti di Marino restituiscono a pieno questo linguaggio che scava nelle fisionomie, fino a smascherare apparenti equilibri a favore di una alterazione poeticamente valida: appena accennata in De Pisis, e in Germaine Richier, dove risulta temperata da una soffusa malinconia per l’amico pittore, e da una condivisione amicale per la collega degli anni svizzeri; più insistita in Emilio Jesi, dove l’imperfetta sfericità della testa sembra accordarsi con la dislocazione dei lineamenti lungo linee ambiguamente divergenti; esasperata nelle superfici accidentate di Stravinskij e Curt Valentin, o nel modellato turgido di Markhof; fino alle deformazioni più azzardate di Chagall, che provocarono addirittura il rifiuto dell’opera da parte del pittore russo. La lettura più incisiva di questa peculiarità che contraddistingue i ritratti di Marino viene, significativamente, da un artista. Lo scultore Mario Negri così commentava nel 1964 il ritratto di Jean Arp, esplicitando, nella descrizione di un’esperienza visiva, le capacità evocative di Marino: «Mi domandavo a chi appartenessero quegli occhi che mi fissavano dall’alto di un trespolo, di chi fosse quel volto, quell’alta fronte, quel lembo di ironia rifugiatosi ai lati estremi delle labbra, agli angoli degli occhi. D’improvviso sullo schermo della memoria un ricordo s’è illuminato, una immagine è scattata, un luogo, una stagione, si sono ricostituiti, quel volto si è mosso, ho riudito una morbida voce: e quel volto ha preso il suo vero nome: Jean Arp»(45).