Acinquant’anni dalla morte, René Magritte appare più che mai indispensabile a spiegarci il presente. La dotazione di strumenti di indagine che ci mette a disposizione comprende raffinate analisi del tema del “doppio” inteso come replica, del volto velato in relazione alla perdita di identità, della robotica intesa come progressiva meccanizzazione del corpo, del mondo delle immagini come ricettacolo di visioni ingannevoli. E di tutto ciò nel suo insieme come ritratto di una società massificata fondata sulla prevalenza della visione manipolata e schiava di sistemi comunicativi che si illude di tenere sotto controllo.
Ora, è possibile che cinquant’anni siano pochi e che in realtà viviamo nello stesso mondo in cui viveva lui. Ma dal momento che negli ultimi decenni
sono accadute cose che vengono spesso e a ragione indicate come segnali certi di un passaggio epocale - citiamo solo, per esempio, la fine delle
ideologie, l’avvento del web e la rivoluzione digitale - viene da chiedersi per quale ragione dipinti che hanno sessanta, settanta, a volte ottant’anni
e più conservino intatto il senso di spaesamento rivelatore che dovevano suscitare in chi li vedeva allora per la prima volta. Il sospetto è che certi
meccanismi ingannevoli e manipolatori siano sopravvissuti alle trasformazioni tecnologiche e sociali.
Qualche esempio. Il tema del doppio arriva a Magritte, e ai surrealisti in genere, dopo un percorso ricco di frequentazioni, da Freud a Dostoevskij, da
Stevenson a Wilde. In Magritte ha due svolgimenti paralleli: la duplicazione del soggetto e l’immagine allo specchio.