Nel IV libro del De rerum natura il poeta latino Lucrezio si sofferma in chiave filosofica sul senso della vista
e in particolare sul rapporto tra la verità della percezione sensibile e la sua falsità, ovvero l’illusione ottica. Si ha la vista perché dalla
superficie dei corpi si distaccano delle particelle che tramite l’aria raggiungono gli occhi e questi, a loro volta, forniscono i dati della visione
alla “ratio” (o anche “animus”): certe “letture ingannevoli” sono attribuibili alla perturbazione che l’aria, per cause varie, imprime alle
particelle mentre l’attraversano. Questa la teoria lucreziana che, dopo un’attenta disamina della natura fisica della visione, si caratterizza per
una suggestiva “visual imagery”, intendendo con tale espressione il repertorio di immagini di un poeta. Le nuvole come giganti, mostri, belve che si
formano in mezzo al cielo, le torri quadrate che da lontano sembrano rotonde, il sole nascente che sembra uscire dai monti e il sole calante che
quasi si tuffa nel mare, le stelle di notte che sembrano scorrere dietro le nuvole e, dopo la forza epica rappresentativa della vastità di
terra mare e cielo, l’immagine del mondo aereo che si specchia in una pozzanghera: «Ma una pozzanghera d’acqua non più profonda di un dito,/che
stagna tra le pietre per le vie lastricate,/ offre una vista che si inabissa tanto a fondo sotto terra,/quanto la profonda voragine del cielo si
stende su dalla terra;/così che ti sembra di vedere le nuvole e scorgere il cielo, corpi mirabilmente immersi sotto terra nel cielo» (414-419).
La piccola pozzanghera raccoglie in sé un mondo intero che quasi magicamente si configura come duplicazione del mondo superiore e, fatto ancor
più straordinario, ripropone un cielo sotto terra, financo una sorta di ribaltamento e di con-fusione della cosmografia antica(1). E così
anche il cielo diventa arte: «Anche il cielo è un “ágalma” secondo Plotino: “Un grande simulacro, bello e animato e prodotto dall’arte di
Efesto”. Il cielo è dunque un’opera d’arte sottilmente ornata: “Gli astri scintillano sul suo volto, altri sul petto, altri dove conveniva che
fossero posti”. Così, anche nella sua espansione indomabile, “ágalma” è pur sempre una statua. E questo permette anche di guardare una statua come
se comprendesse in sé il cielo»(2).
