Il Museo Immaginario
Sì, GLI ANIMALI
HANNO UN'ANIMA
di Alfredo Accatino - Il Museo Immaginario
La vita non è facile se ti chiami Rembrandt Bugatti. Perché il nome è ingombrante se pensi di fare l’artista. Il cognome peggio, se tuo padre è Carlo Bugatti, l’ebanista più celebrato d’Europa, scultore, creatore di gioielli, Gran diploma d’onore alle Esposizioni universali di Londra, Parigi e Torino, nonché inventore della bicicletta da corsa. Soprattutto, se sai che non ti stima.
Peggio ancora se tuo fratello maggiore, Ettore, più bello e più dandy di te, del quale ami segretamente la moglie, è l’acclamato fondatore della casa automobilistica Bugatti. E tuo zio è Giovanni Segantini.Così, quando uno legge che nel 1916 Rembrandt muore suicida a trentadue anni, nell’appartamento di due locali «non molto luminosi ma sufficientemente grandi» che ha affittato in rue Joseph Bara a Parigi, dopo aver aperto gli ugelli della lampada a gas ed essersi sdraiato sul letto vestito col suo completo più elegante, vuol saperne di più. È inevitabile.
Rembrandt nasce a Milano nel 1884 e cresce in un ambiente agiato. Gente che si sente a casa in qualunque parte d’Europa. Da loro spesso si fermano a cena ospiti illustri come Giacomo Puccini, Ruggero Leoncavallo, Adolfo Wildt.
Il ragazzo si appassiona precocemente alla scultura e subisce l’influenza dello scultore italo-russo Paolo Troubetzkoy, amico dello zio Segantini, che frequenta da sempre la casa.
Studia all’Accademia di Brera, tra l’insofferenza del padre, che non vorrebbe un altro artista in casa. Per lui sognava una carriera da ingegnere. Il salto di qualità, per Rembrandt, consiste nel capire che sono gli animali e non gli uomini l’unica cosa che vuole ritrarre e raccontare. Lo scopre quando raggiunge la famiglia a Parigi, dove si è trasferita nel 1902, e trascorre giornate intere nel Jardin des Plantes a osservare piante e animali.
Da questo momento, non solo disegna e scolpisce bestie, ma vuole capirle, le bestie. Certo, riprende alcuni stilemi dell’Art Nouveau e anticipa le tendenze dell’arte moderna, ma rende ogni animale “vero”. Lo si può vedere anche dai bozzetti in gesso conservati alla Galleria nazionale di arte moderna di Roma. O a Parigi, al Musée d’Orsay. Stilizzati, eleganti, eppure realistici: pantere, elefanti, fenicotteri, ma anche bassotti, ruminanti, e animali che nessuno aveva mai pensato prima di raccontare.
Non è uno dei soliti artisti “animalier” che asseconda una precisa richiesta del mercato. Gli animali sono l’oggetto proprio e specifico della sua ricerca, come la montagna Sainte-Victoire lo sarà per Cézanne. E se deve disegnare il proprio autoritratto traccia la silhouette di un marabù.
Lui gli animali vuole che prendano vita e vuole immaginarli liberi e incorrotti. Detesta vedere le bestie ammaestrate, gli “animali sapienti” che si esibiscono nel circo. Addirittura s’infastidisce quando incontra per strada cani tenuti al guinzaglio. È alto, allampanato, un po’ lugubre, solitario, con le spalle curve. Nel sorriso ricorda un poco Buster Keaton. Ma è sempre elegante, di modi e abbigliamento, tanto che lo chiamano “l’Aristocratico”. Nel 1905 firma un contratto, probabilmente sollecitato dal padre, per lavorare e vendere i suoi bronzi con Adrien-Aurélien Hébrard, proprietario dell’omonima fonderia d’arte e della celebre galleria di rue Cambon. Nel 1907 stabilisce il suo atelier ad Anversa, nei pressi del grande zoo cittadino, dove può studiare da vicino gli animali e scolpire dal vivo, sino a diventarne un’istituzione. Nel 1911 l’esposizione parigina delle sue opere ne sancisce il definitivo successo. Vende tutto.
Tutti i ricchi vogliono avere i suoi animali per dare un tocco “selvaggio” alle loro dimore. Colleghi meno fortunati di lui iniziano addirittura a imitarne i tratti peculiari. Inizia, insomma, a essere apprezzato, pur rimanendo sempre ai margini di qualcosa.
Quando scoppia la Grande guerra finisce quel piccolo mondo nel quale Rembrandt Bugatti aveva trovato la nicchia dove nascondersi. Alcuni animali dello zoo di Anversa devono essere soppressi e la cosa lo addolora profondamente. Rembrandt s’impegna con la Croce rossa, prodigandosi per far fronte all’arrivo dei primi feriti e dei malati di tubercolosi. Sente che deve “fare”. Torna a Milano e nell’agosto 1915 si arruola nell’esercito italiano, rimanendo alcuni mesi sotto le armi.
Inizia, però, ad avvertire i sintomi della tubercolosi, che gli rende faticoso ogni minimo gesto. Conosce la malattia, ha curato ad Anversa i soldati tisici e viene preso dalla paura. Inizia a frequentare la chiesa e ascoltare le prediche di un certo padre Galtier, lavorando a un crocifisso. Che sarà la sua ultima opera: e che trovo francamente orribile.
Quando torna a Parigi, trova tutto cambiato. Il padre non c’è, trasferitosi a Pierrefonds nell’Oise, dove si diverte a fare il sindaco. La Galleria Hébrard è chiusa, i soldi sono finiti, anche il fratello vive momenti di difficoltà e non può aiutarlo. Anche il Jardin des Plantes è chiuso. Tutto sembra perdere interesse. E accanto a lui, sul letto, si sdraia quel male oscuro che gli artisti spesso si sono trovati come compagno di viaggio. In omaggio postumo, Ettore Bugatti e suo figlio Jean riprenderanno il suo Elefantino danzante, da lui modellato nel 1904 appena ventenne, per creare in argento e bronzo la mascotte che orna il tappo del radiatore dell’auto più bella mondo, la Bugatti Royale del 1926.
Terribile il racconto dei suoi ultimi giorni pubblicato da Francesco Paolella sulla rivista on line “Tysm Review”, commentando la biografia di Rembrandt scritta nel 2015 da Enrico Franzosini, Questa vita tuttavia mi pesa molto, titolo che cita una frase scritta dall’artista degli animali in una lettera al fratello. Scrive: «L’ultimo periodo della vita di Bugatti, ormai ridotto in povertà e forse già condannato dalla malattia, fu una specie di salto giù nell’abisso, nell’assurdo del dolore, fino al suicidio, estrema rivendicazione di dignità. Assoldò un giovane emigrante italiano e lo crocifisse, sul serio: lo legò per lunghe ore a una croce con degli stracci bagnati, per poter avere finalmente un modello umano (e non-umano allo stesso tempo); e fra i sospiri e i dolori di quel finto-Gesù, desideroso solo di qualche soldo, Bugatti riuscì a dar forma alla sua ultima opera».

