Lo zar Pietro I Romanov, Pietro il Grande, era “Grande” anche per la sua inestinguibile curiosità. Il 18 agosto
1697 arriva a Zandaam, porto dei Paesi Bassi celebre per i suoi cantieri navali, e si fa assumere come carpentiere sotto falso nome. Vuole imparare
tutto sulla costruzione delle navi e dotare un giorno la Russia di una flotta degna delle grandi potenze internazionali. In breve la sua vera
identità viene rivelata e una piccola folla inizia a seguirlo nei suoi spostamenti. Così esce allo scoperto e si trasferisce ad Amsterdam, dove
frequenta la buona società del tempo ma riesce comunque a lavorare per la Compagnia delle Indie. Conosce artisti come Jan van der Heyden, noto
per le sue vedute urbane ma soprattutto capo dei pompieri della città e inventore di una pompa per spegnere incendi di grande praticità d’uso.
Conosce anche Antoni van Leeuwenhoek, perfezionatore del microscopio, tra i primi a studiare protozoi e spermatozoi e a postulare l’esistenza dei
batteri. Visita fabbriche e ospedali, si reca anche in Inghilterra dove si guarda intorno con altrettanta attenzione. Al suo ritorno in patria
nell’estate 1698 riesce a portare con sé ottocento fra tecnici e specialisti (aveva provato anche con Van der Heyden, senza successo) che inserisce
negli snodi vitali dell’organizzazione produttiva russa, allora molto arretrata rispetto alle altre potenze europee.
Un rinnovamento che estende all’abbigliamento dei suoi compatrioti, al punto da vietare ai suoi sudditi l’antico uso di portare la barba (multa di cento copechi per i ricchi, un copeco per i poveri). Cambia anche il calendario, il sistema monetario, l’esercito, la Chiesa ortodossa, la struttura del governo, reprime nel sangue le cospirazioni dei boiari, riforma la scuola e le tasse, compie varie imprese militari, si libera della moglie e della sorella mandandole in convento, finché nel 1707 si sposa segretamente con una lituana di origini modeste, Martha, che cambia il suo nome e diviene Caterina. Con lei, che gli succederà brevemente sul trono alla sua morte (1725) fonda San Pietroburgo e costruisce il Peterhof. Libero, innovativo, sicuro di sé, capace di grande ammirazione per l’eccellenza ma anche animato da quella che Louis de Saint-Simon nei Mémoires definisce «un’antica barbarie» Pietro è l’iniziatore di un interesse per le arti figurative che si diffonde nelle classi dominanti russe e costituisce la base su cui poggia l’enorme collezione dell’Ermitage. Nel 1748 Voltaire gli dedica una monumentale biografia storica che ne consolida il mito di sovrano a suo modo “illuminato”, obbligato alla distruzione del passato come condizione necessaria perché si possa aprire la via del progresso; un innovatore che “dal nulla” o quasi crea un impero moderno. Posizioni che suscitano un dibattito all’inizio tutto interno all’illuminismo francese, con prese di posizioni da parte di Montesquieu e di Rousseau, ma che gradualmente si allarga. Nascono così, in Europa occidentale, un’attenzione intellettuale reale e un’idea preconcetta di lunga durata, un tarlo, un pregiudizio di fondo animato da una certa diffidenza, come accade per le cose che non si conoscono abbastanza e davvero ma sulle quali non si può fare a meno di farsi un’opinione. Attorno ai primi acquisti di Pietro il Grande si costruiscono le basi di quello che sarà uno dei musei più ricchi del mondo. Oggi l’istituzione Ermitage - transitata dagli zar all’Unione Sovietica, poi alla Russia - possiede oltre tre milioni di opere d’arte, delle quali sessantamila esposte. Quasi quattromila di quelle opere sono state acquistate da un’altra Caterina, la Grande, sovrana di famiglia tedesca che sale al trono nel 1762 e rimane zarina fino alla morte, nel 1796; è lei la vera iniziatrice del museo. Caterina II si pone idealmente sulla scia del suo modello dichiarato, Pietro il Grande. E in quell’ottica intrattiene rapporti intellettuali con l’ambiente filosofico illuminista. Non solo rapporti intellettuali: se Diderot vive negli agi tutta la vita (e dopo di lui la vedova, i figli e i nipoti) è essenzialmente per i puntuali sussidi che gli arrivano dalla corte moscovita. Per Caterina, in fondo, si tratta di un investimento in comunicazione di immagine - la zarina godrà sempre di buona stampa, nell’Europa che conta - e in consulenze di livello e prestigio: sono Voltaire e Diderot a favorire l’acquisizione da parte sua di importanti collezioni d’arte. Collezioni che acquista in blocco usando i propri ambasciatori, a volte pagando molte volte il loro valore effettivo, in preda a quella che lei stessa definiva “voracità” di opere d’arte. La sua intenzione, dichiarata, è di dar vita a una galleria d’arte di proporzioni gigantesche.
Quel che colpisce, negli acquisti e dunque nelle preferenze della zarina, è il numero altissimo di dipinti olandesi, l’Ermitage ne raccoglie oggi circa millecinquecento (dei quali una sessantina selezionati per la mostra di Amsterdam). Una misura davvero insolita, secondo i criteri accademici del collezionismo europeo del tempo; criteri ispirati, si direbbe, al severo giudizio attribuito da Francisco de Hollanda (1538) a Michelangelo secondo il quale «nelle Fiandre dipingono badando all’esattezza esteriore, o a cose che possano allietare la vista [...]. Dipingono stoffe ed edifici, l’erba verde dei prati, l’ombra degli alberi e fiumi e ponti [...]. Ma tutto questo, benché piaccia ad alcuni, è fatto senza ragione e arte, senza simmetria e proporzione, senza maestria nella scelta e ardimento, e insomma senza sostanza e senza vigore». L’accademia, la critica e il gusto avrebbero seguito a lungo questo giudizio/pregiudizio circolante in ambito italiano e italianizzante, in pratica presso tutte le classi colte d’Europa, imbevute di classicismo. Ma non a Mosca, dove evidentemente il desiderio di essere accolti come pari nelle corti europee, l’imitazione di quei gusti, mode e stili di vita non cancellavano del tutto inclinazioni e preferenze personali. Lo zar Pietro acquista il suo primo Rembrandt - il David e Gionata (1642) - nel 1717; oggi a San Pietroburgo i Rembrandt sono venticinque. Il ritorno del figliol prodigo, ancora di Rembrandt (1668) è il preferito di Caterina che lo compra grazie al suo ambasciatore all’Aja. Dal barone di Thiers, con l’aiuto di Diderot, nel 1772 acquista un’intera collezione di cui fa parte, tra l’altro, la Danae dello stesso autore (1636).