Pochi registi hanno continuato a lavorare in modo interdisciplinare come Wim Wenders, intessendo il cinema con la
musica (i primi corti, Lisbon Story, Buena Vista Social Club, The Soul of a Man), la pittura (non solo con riferimenti ovunque ma
considerandola l’arte chiave per la visione), e poi con la fotografia (Il sale della terra su Salgado), la danza (Pina su Pina Bausch) e perfino
la moda (Appunti su moda e città su Yamamoto). Mancava l’architettura, ciononostante gli scritti dedicati dal regista tedesco a questa disciplina
sono numerosi e tra gli architetti Wenders è un cineasta di culto. Nel Cielo sopra Berlino la sequenza sulla biblioteca si svolgeva nel “tempio”
dell’architettura organica di Hans Scharoun al quale è stato dedicato un corto all’interno del film collettivo Cattedrali della cultura (2014),
coordinato da Wenders insieme ad altri autori. Il film (disponibile da giugno 2016 in dvd) dà voce a sei edifici chiave della storia umana. Tra questi
troviamo la Filarmonica di Berlino che, come fosse un personaggio, racconta se stessa in prima persona. L’episodio sulla Filarmonica (regia di Wenders)
trasmette un amore profondo per un luogo e un artista, Scharoun appunto, ideatore della sala concerti nella capitale tedesca. A questo ponte tra
cinema e altre arti Wenders ha contribuito non solo con i suoi film ma anche con i suoi libri. In una raccolta di saggi, I pixel di Cézanne (Roma
2017, v. recensione p. 82), chiarisce i rapporti con alcuni pittori (accanto a fotografi e registi). Nel saggio dedicato a Cézanne, il regista aggiorna
una devozione già altre volte espressa per il maestro di Aix-en-Provence che «dipinge l’atto stesso del vedere». «Cento anni dopo chiunque è in grado di
scomporre gli atomi della visione (o pixel, se volete) e poi di ricomporla». Ma davvero sorprendenti sono le pagine su Andrew Wyeth (pittore caro ai
cineasti, Terrence Malick e Šarūnas Bartas in primis). Wyeth ricompone l’attimo e l’eternità: «Per questo lo considero così essenziale. Abbiamo
disimparato come possa essere complesso il vedere, che per noi è diventato il più delle volte solo un primo sguardo, Wyeth ci insegna il secondo e il
terzo sguardo. Sembra dirci: considerate tutta la responsabilità che risiede nell’atto del vedere!»