Chen Zhen esplode immediatamente nelle navate dell’Hangar, un’esplosione silenziosa quella dei tamburi di Jue Chang, Dancing Body - Drumming Mind (The Last Song), che non possiamo suonare: grandi letti e sedie, appesi e ricoperti di pelle tesa, un’orchestra pronta e vibrante, il tuono possiamo solo immaginarlo.
Percussioni animate da musicisti o performer quando è il momento, altrimenti silenziose. Strumenti antichi ed esotici, eppure incredibilmente familiari. E la pelle? La pelle sta per il corpo umano ci dicono le istruzioni per l’uso, contenute nel prezioso libretto che l’Hangar omaggia a ogni mostra.
Il corpo. Il nostro veicolo per vivere nel mondo, per attraversarlo ed esserne attraversati, le nostre spoglie, mortali. Chen Zhen era molto consapevole
di essere mortale, a differenza di molti di noi, a causa di una malattia autoimmune. Nato nella Shanghai francese nel 1955, figlio di medici, artista,
col suo lavoro ha voluto “curare l’anima delle persone”. Ha vissuto qualche mese coi monaci in Tibet, poi è emigrato a Parigi, è morto nel 2000.