XXI secolo. 1
Titolo

PATRIMONIO
DI CHI?

Nel corso degli ultimi anni molti musei europei - ma anche qualche amministrazione statale - hanno avviato una riflessione su quanta parte di quello che consideriamo “nostro” patrimonio museale derivi in realtà da un passato coloniale di spoliazione. Da qui l’esigenza, sempre più sentita, di operare non solo restituzioni di opere d’arte sottratte, ma anche un ripensamento del modo di intendere la funzione del museo stesso.

Elena Agudio

Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro della restituzione. Un fantasma che aleggia nelle opulente sale dei musei, che serpeggia nei depositi delle collezioni statali, che si insinua nei sogni e negli incubi di storici dell’arte, direttori museali e politici. L’ombra adirata e lo spirito infuriato di antenati che a voce alta rivendicano il patrimonio artistico e culturale di cui popoli interi sono stati spoliati e derubati indebitamente per secoli; testimoni dei saccheggi e delle razzie, dei massacri e dei genocidi, delle prepotenze politiche e dei traffici illeciti alla base della ricchezza e a fondamento di buona parte delle collezioni etnografiche e museali della “bella” Europa.

La civiltà occidentale sembra capitolare, suggeriva la moderatrice dell’evento online per il lancio della pubblicazione dell’archeologo contemporaneo di Oxford Dan Hicks, The Brutish Museums(1) lo scorso 5 novembre 2020. Nel volume Hicks non solo ricostruisce la crudezza della storia nascosta dietro alla collezione dei “bronzi del Benin” - depredati in un attacco navale britannico nel 1897 -, ma lancia anche un appello per un’urgente restituzione di ogni bottino coloniale.

Una verità troppo a lungo messa a tacere dietro le vetrine e i magnificenti apparati museali. Non solo attivisti anticoloniali, artisti e intellettuali radicali rivendicano la necessità di ripagare il debito (irreparabile) del colonialismo e chiedono ai governi occidentali di confrontarsi con la propria storica, atroce e rapace violenza, ma anche accademici con cattedre in prestigiose università occidentali, studiosi e addirittura capi di Stato - dall’interno delle istituzioni roccaforte della fortezza Europa - si confrontano con l’opportunità di riscrivere la storia della museologia occidentale.

Il 27 novembre del 2017 il presidente della repubblica francese Emmanuel Macron in un discorso che teneva all’università di Ouagadougou, in Burkina Faso (il paese cosí rinominato da Thomas Sankara), dichiarava: «Io vengo da una generazione di francesi per i quali i crimini della colonizzazione europea non possono essere contestati e fanno parte della nostra storia»(2). Quel giorno lo stesso Macron commissionava alla storica dell’arte Bénédicte Savoy e al filosofo e autore Felwine Sarr un Rapporto sulla restituzione del patrimonio culturale africano, chiedendo ai due accademici di valutare la storia e la composizione delle collezioni pubbliche in Francia e di sviluppare un piano per le successive fasi di restituzione degli oggetti saccheggiati. Per la prima volta un capo di Stato europeo metteva in discussione il concetto di inalienabilità del patrimonio nazionale. Dal momento della pubblicazione del Rapporto nel novembre 2018, il dibattito in Occidente sembra essersi fatto improrogabile e improcrastinabile. Se in Francia, in Germania e in Gran Bretagna la discussione sul rimpatrio è divampata come un incendio, e - nonostante presto abbia svelato il suo volto spesso ipocrita - inizi di trattative con le comunità spoliate si siano aperti, quale è stata la reazione nel “Bel paese”?