Le proteste che si sono levate a seguito della morte di George Floyd, oltre alla questione specifica della violenza della polizia degli Stati Uniti hanno posto problemi più generali che vanno dalla legittimità dei monumenti dedicati a veri o presunti schiavisti alla “repatriation” dei reperti dell’Africa subsahariana e alla “decolonizzazione” dei musei di antropologia o dei musei generalisti con importanti collezioni d’arte africana.
In Europa, e soprattutto in Gran Bretagna, alcune associazioni sono entrate nel merito della “decolonizzazione” chiedendo, tra l’altro, che i musei diano una «chiara ed esplicita informazione sulla storia e l’acquisizione degli oggetti» più legati al colonialismo e che si impegnino a «riscrivere» le didascalie delle opere d’arte che hanno «parole sensibili sul piano razziale» o che presentano descrizioni superate delle «popolazioni nere».
Queste richieste, tuttavia, sembrano ignorare un fatto eclatante: in Europa e nelle Americhe, in generale, la “decolonizzazione” dei grandi musei è spesso già stata fatta. E con eccellenti risultati. È stata realizzata non parlando tanto di “decolonizzazione”, ma semplicemente aggiornando i musei a partire da quanto le ricerche antropologiche e della storia dell’arte extraeuropea hanno sedimentato negli ultimi decenni.
Naturalmente, ci sono anche i casi di musei meno importanti, come il Pitt Rivers di Oxford, dove la “decolonizzazione” inizia adesso. Ma questo è un
dato che non cambia il quadro generale.
L’antropologia e l’arte sono stati i terreni nei quali sono nati percorsi museografici decolonizzati e non etnocentrici. A livello antropologico la
scelta è stata relativamente semplice, perché si è trattato di applicare ai reperti dei musei le categorie che da qualche decennio questa disciplina
usava nell’affrontare le diverse culture del mondo. A livello artistico, però, è stato più complesso, nonostante Picasso e le avanguardie del Novecento
avessero già indicato la strada. Infatti, non è stato facile far sì che “specialisti” e non addetti ai lavori riuscissero a vedere in opere “strane” e
“diverse” gli equilibri di forme e di volumi che caratterizzano i capolavori di tutte le culture del mondo.