A dieci anni Cynthia Morris Sherman (Glen Ridge, New Jersey, 1954), detta Cindy, amava travestirsi, non da ballerina o da sposa però: indossava i vestiti di sua nonna e si truccava come lei, da persona anziana. Non era solo un atto di anticonformismo il suo, ma un vero e proprio trampolino di lancio per quella che sarebbe diventata in futuro la sua poetica artistica, il suo stile: l’arte camaleontica del travestitismo che l’avrebbe resa la “una, nessuna, centomila” del XX secolo.
Cindy Sherman è “le persone in attesa dell’autobus” in Bus Riders (1976), il suo primo atlante umano; è “i personaggi impersonati dalle attrici del cinema hollywoodiano ed europeo anni Cinquanta-Sessanta” nel lavoro che le ha dato la notorietà, Untitled film still (1977-1980); è “i seriosi dottori e le occhieggianti infermiere” in Doctor and Nurse (1980); è “le donne fragili e umiliate” di Centerfolds (1981); è “la donna forte e senza trucco” in Pink Robes & Color Studies (1982); è “i personaggi grotteschi dallo humor nero” delle sue Fairy Tales (1985); è “le opere pittoriche dei grandi maestri dell’arte” in History Portraits (1989-1990); è “i clown tragicomici” dei Clown (2003-2004); è “le donne anziane dell’alta società” in Society Portraits (2008); è “gli uomini androgini” dell’ultimo suo lavoro conosciuto come Men (2019-2020).
La sua non è una semplice messa in scena, una classificazione di generi e identità, di ruoli e di personaggi, ma un’indagine sugli stereotipi della cultura di massa del XX e XXI secolo. Quello che Sherman mostra è la rete di standardizzazione in cui la società ha inserito l’essere umano, è al contempo una critica a essa ma anche alla persona stessa che si è adagiata confortevolmente nella sua trama. Il suo lavoro ne svela l’intrico delle maglie, ma quello che interessa a Sherman non è tanto la denuncia in sé ma il percorso del disvelamento. Attraverso l’utilizzo di artifici, ambiguità, simbologie latenti, con l’utilizzo dell’autoritratto che apre la porta alla dualità e alla dicotomia nella lettura dei suoi ritratti, Cindy Sherman non ha mai fatto stare comodo il suo spettatore, l’ha sempre umoristicamente pungolato. Il sorriso che scaturisce è semplicemente il risultato del riconoscimento degli archetipi che la società mette in campo, non solo direttamente sulle persone ma anche indirettamente sui linguaggi che esse usano per identificarsi, come quello cinematografico. Per questo motivo la ricerca di Sherman risulta anche un lavoro metalinguistico, un’indagine in cui il significante è importante quanto e forse più del significato che vuole comunicare. I soggetti ritratti prendono forma e spessore dalle inquadrature usate, dal taglio, dalla luce, dalla scelta del colore o del bianco e nero, dalla loro resa verticale o orizzontale. Inoltre, dagli inizi del XXI secolo, a creare maggiore ambivalenza nelle immagini dell’artista americana si è inserito anche l’elemento digitale.