Partiamo da qui. È una dichiarazione di Max Liebermann, che per Hals nutriva una vera passione, quasi un’ossessione. Pittore a sua volta (Berlino 1847-1935), protagonista della Secessione berlinese del 1899 e fautore di un realismo senza compromessi, Liebermann trascorse molto del suo tempo a copiare opere di Hals. Era, la sua, un’attrazione invincibile, ma consapevole della gerarchia di valore unanimemente accettata riguardo al Seicento olandese: Rembrandt, Vermeer, e poi Hals, dei tre il più accessibile, tutto meno che sovrumano, enigmatico o complesso. È il più anziano dei tre, il primo a dare avvio a quello che sarà il Secolo d’oro per l’arte dei Paesi Bassi. Ma anche, forse, è dei tre il meno provvisto di un’identità forte, nitida, ben definita. Rembrandt è il drammatico protagonista di un incessante scavo nell’animo umano, Vermeer è “la Sfinge di Delft”, il misterioso creatore di atmosfere sospese e rarefatte. La pittura di Hals evoca invece la bonomia borghese dei mercanti delle Province Unite, tutti in posa per tramandare ai posteri (ma anche ai propri contemporanei) un’immagine positiva del loro status, un po’ in autocompiaciuta citazione del ritratto rinascimentale italiano e un po’ anche prototipo per quello che nell’immaginario moderno sono i Tre moschettieri - come nota Walter Liedtke (2011); una recita, insomma, per una platea di amici e parenti.
Eppure, come vedremo, in Frans Hals c’è di più. E i primi ad accorgersene furono proprio alcuni artisti del secolo XIX, fra i quali molti impressionisti, che nella sua maniera di dipingere riconobbero - etichettandola subito come “moderna” - un modello da seguire.
Il pittore settecentesco inglese Joshua Reynolds ne ammirava l’abilità ma ne deplorava la «sciatteria»: peccato, diceva, che non sapesse «rifinire correttamente» i suoi quadri. E invece quel segno sporco, quella pennellata un po’ rude, quella disinvoltura, l’atteggiamento stesso dei soggetti, sicuri di sé e leggibili perfettamente nei loro pensieri, emozioni, stati d’animo non potevano sfuggire all’ammirazione incondizionata di alcuni fra i più inquieti spiriti della pittura europea e statunitense del secondo Ottocento: Courbet, Manet, Sargent, Merritt Chase, il citato Liebermann, Van Gogh; tutti adoravano Frans Hals e gli riconoscevano un incredibile talento. E Haarlem, la città che ne conserva tuttora i dipinti più importanti, era assediata da aspiranti artisti e ammiratori. Ci sono foto d’epoca che mostrano le sale dell’allora museo civico del capoluogo olandese (oggi le opere di Hals sono in quello che ha preso il nome di Frans Hals Museum, in altra sede) letteralmente ingombre di cavalletti, stracci, colori, tavolozze, pennelli e copisti - uomini e donne - arruffati nei La zingara (1628-1630); Parigi, Musée du Louvre. loro camicioni, pennello alla mano, intenti a studiare i loro modelli a distanza pericolosamente ravvicinata.
Fu questo interesse “recente” a restituire a Hals un ruolo decisivo nella vicenda artistica del Seicento olandese. Fino alla metà dell’Ottocento era noto soprattutto come instancabile frequentatore di birrerie, scialacquatore di denaro e pessimo esempio per i suoi molti figli. E già ai suoi tempi, lo stile ruvido della sua pittura - condiviso peraltro da altri artisti, come lo stesso Rembrandt, e così diverso da quello limpido e raffinato dei pittori alla moda - veniva alla fine identificato con uno stile di vita, specchio di un’irregolarità esistenziale. Nel 1868 un articolo su “La Gazette des Beaux-Arts” di Théophile Thoré-Bürger (lo stesso critico francese che riscoprì Vermeer) lo restituì al suo vero ruolo di innovatore dell’arte olandese, maestro di una nuova generazione di pittori e straordinario ritrattista.