La famiglia che dal 1853 bonifica il Fucino, impresa tentata più volte invano a partire da Giulio Cesare, possedeva cento ritratti in marmo: busti imperiali, donne famose, personaggi qualunque. Nella mostra a Roma, di cui Sergio Rinaldi Tufi parla nelle pagine precedenti, se ne vedono in tutto ventitre, restaurati da uno sponsor, Bulgari, perché chissà se i proprietari avrebbero mai compiuto l’intervento. La collezione comprende seicentoventi antichità; ma a villa Caffarelli, luogo dell’esposizione romana, ne sono finite appena novantadue. L’accordo stipulato dalla Fondazione Torlonia con lo Stato nel 2016 contempla un futuro museo per la raccolta, in una sede individuata «d’intesa» tra le parti; ma i colloqui per l’«intesa» non sono nemmeno iniziati: quindi, vattelapesca quando si concreterà. Insomma, finora, abbiamo potuto rivedere soltanto il quindici per cento circa del più favoloso insieme privato di marmi greci e romani che esista al mondo: è appena un primo passo, non è certo un trionfo. Non solo: da oltre mezzo secolo, la collezione è al centro di “querelles” anche in tribunale; e di parentesi ed episodi oscuri, che non sono ancora archiviati. Carlo, il primogenito tra gli eredi, sostiene di essere stato defraudato, dopo che, nel 2017, è morto il padre Alessandro: ci sono stati anche dei sequestri, poi revocati. Un tempo si diceva: «O i Torlonia prosciugano il Fucino, o il Fucino prosciugherà i Torlonia». Ora la banca di famiglia, che reca il nome del bacino bonificato e di cui Carlo è stato anche vicepresidente finché il padre l’ha voluto, non è più florida come un tempo; e forse qualche rischio di impoverimento, se non di prosciugamento almeno parziale, potrebbe esistere.
Ma questa è soltanto l’ultima delle “grane” che hanno colpito la collezione. La nascita ufficiale del museo in cui era conservata data al 1876: in un ex opificio per la lana, vicino a Porta Settimiana. Erano settantasette stanze: ce n’è ancora la pianta. Non era un vero e proprio museo: piuttosto, un tempio. Non vi entrava tutto il pubblico: solo le persone gradite; in certe foto del conte Giuseppe Primoli si vedono anche dei rari visitatori: donne con il cappellino, uomini in bombetta o cilindro. Si racconta che, per ammirare quelle opere, Ranuccio Bianchi Bandinelli si sia dovuto travestire da netturbino, e chissà se è vero, considerato quel certo snobismo di cui egli è accreditato.
Le guide del tempo descrivono quel luogo, con le statue poste su basi in legno, a simulare il granito rosa, e suddiviso in settori: all’inizio, erano gallerie e corsie, e compartimenti. C’erano la Sala arcaica, quelle degli “atleti” e dei “sarcofagi”, una con gli affreschi dalla Tomba François di Vulci (Viterbo). Però, all’inizio degli anni Settanta del Novecento, senza dirlo a nessuno e senza permessi, con una licenza per rifare il tetto, quelle settantasette sale diventano novantanove miniappartamenti. E la collezione è rinchiusa in locali adibiti a depositi, le statue una accanto all’altra, e per giunta ben vigilate con scarsa spesa, perché, al di là del muro, c’è una caserma di carabinieri. E così è rimasta: un tesoro d’antichità sottratto a generazioni di visitatori e di studiosi. Quantunque Alessandro Poma Murialdo, nipote del principe Alessandro Torlonia, che presiede la fondazione creata dal nonno poco prima di andarsene, presentando la mostra abbia parlato di «rigorosa tutela» da parte della famiglia. Ricordo ancora gli affreschi della Tomba François, nella “coffee house” a villa Albani poi Torlonia appena restaurata, malamente avvolti da fogli del “Messaggero” del 1954, e Antonio Giuliano, famoso archeologo, che diceva a don Alessandro: «Principe, scusi, ma non si tengono così le cose». In seguito, sono stati restaurati e, pur se poche volte, anche esposti.

