ALLE RADICI DELLA
DIVINA COMMEDIA

Se si escludono quelle bibliche ed evangeliche, una delle principali fonti che, dal punto di vista letterario, va considerata anche come un precedente poetico della Divina commedia, è da rintracciare nel Libro delle tre scritture, nato dalla cultura e dalla fantasia del milanese Bonvesin de la Riva (1240-1315) e composto da cinquecentonovantasei stanze per duemilatrecentottantaquattro versi.

Come spiega l’autore esplicitamente, già a pochi versi dall’inizio del poema, il riferimento simbolico ai colori e la loro dimensione applicata alla grafia sono altrettante metafore della condizione del credente che, nella vita ultraterrena, potrebbe incappare nella punizione divina (scrittura “negra”) per via della sua malevola condotta peccaminosa, oppure ambire al premio vero e proprio e ottenerlo (scrittura “aurea”). Con la scrittura “rossa”, invece, Bonvesin descrive la Passione di Cristo («passion divina») che, tuttavia, di fatto, è origine della redenzione e, dunque, del Giudizio di Dio. Possiamo, infatti, leggere: «In questo nostro libro da tre guis è scrigiura: / La prima sì è negra e è de grand pagura / La segonda è rossa la terza è bella e pura, / Pur lavoradha a oro ke dis de grand dolzura».

Contemporaneo di Dante, entrato nell’ordine religioso degli umiliati, Bonvesin de la Riva visse a Milano, dove divenne celebre come filantropo e finanziatore di ospedali cittadini. Si dedicò alla letteratura tanto in latino (sua è la prima vera “guida” della città, il De magnalibus urbis Mediolani) quanto in volgare, quando l’idioma padano sarebbe potuto assurgere a modello per la nuova lingua italiana. Il Libro delle tre scritture appartiene a quel genere di testi, allora piuttosto diffusi, delle “visioni”, cioè delle rappresentazioni dell’aldilà, che annoverano precedenti arabi e mediolatini. Lo stile di Bonvesin è icastico, pungente e considera l’uomo un essere immondo che «anche se bello di fuori, di dentro è pien di sozzure: fora per la bella boca se fa scharcalij e spuda per lo naso e per le oregie e per li ogi pur brutura ». Egli ha dentro di sé la tabe del peccato, come dimostra il fatto che per quanto belli, preziosi e prelibati siano i cibi che mangia, una volta «entrati nello stomaco», sono destinati a «diventar marciume». Infatti, brighe e travagli angustiano l’uomo durante tutta la vita, finché «la morte lo agguanta»(7). Questa concezione dell’uomo misero, vessato dal suo stesso corpo, è la medesima che emerge da cicli pittorici come, per esempio, quello dedicato alla Danza della morte di Clusone (Bergamo) che, sebbene più tardo in quanto dipinto da Giacomo Borlone de Buschis fra il 1484 e il 1485, recupera le tradizioni popolari precedenti; ma anche quelle letterarie come il Trionfo della morte di Petrarca e quelle blasonate e allora celebri della pittura di Buffalmacco nel Camposanto di Pisa. È qui che l’incontro dei tre vivi coi tre morti interpreta al meglio lo spirito del poema di Bonvesin, con l’impietosa descrizione visiva del processo di decomposizione del cadavere. Pure l’affresco pisano è successivo al testo poetico milanese, ma è noto come il tema iconografico sia precedente a entrambi come dimostra l’affresco, databile intorno al 1260, della cattedrale abruzzese di Santa Maria Assunta ad Atri (Teramo).