«Mio padre mi voleva pastore e ho passato la mia adolescenza tra pecore e cani e un solo libro»: si racconta così Lorenzo Reina, sessantenne con la barba brizzolata e gli occhi obliqui e ironici dei siciliani che molto hanno visto e molto conoscono. «Scolpivo alabastri di notte, in una stalla accanto a quella dove riposavano altri pastori, che sempre mi urlavano, tra le bestemmie, di andare a dormire. Scolpivo al lume di una fiaccola, un pezzo di stoffa immersa nella nafta, e quando le mie narici si riempivano di polvere e di fumo uscivo fuori a respirare sotto le stelle. Una notte chiesi al cielo di farmi incontentabile, mai sazio della mia arte, e sono stato ascoltato. È scritto che lo Spirito, come il vento, soffia dove vuole, e ha soffiato qui, dove alla fine degli anni Settanta portavo a pascere le pecore, che stranamente, come prese da incantamento, restavano a ruminare ferme come sassi. Allora ho intuito che da questo luogo fluisce energia positiva, così nei primi anni Novanta alzai le prime pietre. E non sarei più stato solo».
Di pietre, Lorenzo Reina ne ha alzate migliaia, una al giorno, per migliaia di giorni. Le aveva prima raccolte e radunate nello spiazzo dove le pecore si incantavano, a mille metri di altezza nel cuore dei monti Sicani, a Santo Stefano Quisquina, tra Palermo e Agrigento. Da qui si abbraccia con lo sguardo tutta la catena dei monti chiamati col nome dei popoli che abitarono la Sicilia prima dei siculi.
Da qui, nei giorni di tramontana, lo sguardo arriva fino al mare di Sciacca e alla sagoma di Pantelleria; e, nei giorni di nuvole, le nuvole non osano arrivare fino al piccolo altopiano e lo lasciano a galleggiare nel sole, un isolotto sperso in un mare di bioccoli candidi come la lana delle pecore.
Qui, incastrando le pietre una sull’altra con l’arcaico sistema dei muri a secco, Reina ha costruito il teatro Andromeda, un’opera monumentale, che oggi richiama visitatori da tutto il mondo (www.teatroandromeda.it). Il fotografo inglese John Freeman, che l’ha visto e ripreso dall’alto con un drone, l’ha ribattezzato “uterus”, per la sua forma che fa pensare alla cavità femminile. È un teatro all’aperto, parente delle cavee greche, e delle “mànnare”, i recinti di pietre dove fin dai tempi antichi si ricovera il gregge. Simile a un reperto archeologico più che a una costruzione moderna, ricalca la struttura della costellazione di Andromeda, rappresentata nelle antiche carte celesti con l’immagine della mitologica principessa in catene sulla costa rocciosa, offerta in sacrificio al mostro marino e liberata da Perseo. La costellazione che da Andromeda prese il nome si trova tra quelle di sua madre Cassiopea e del suo liberatore Perseo. Soltanto la costellazione dei Pesci la separa da quella della Balena, che identifica il mostro marino Cetus.
La costellazione è famosa soprattutto perché accoglie, nei suoi confini, il più lontano oggetto visibile a occhio nudo nel profondo cielo: la galassia di Andromeda. La descrisse per la prima volta, nel 964, l’astronomo persiano Abd al-Rahmān al-Sūfi, che parlò di una piccola nube affusolata.
Reina deve avere osservato a lungo, nelle sue notti insonni fuori dall’ovile, le costellazioni e le galassie. Deve averle osservate con lo stesso stupore e la stessa incontenibile voglia di conoscenza che ebbero in epoche immemorabili i caldei e gli abitanti delle vaste pianure di Sennaar, dove gli orizzonti immutabili e senza nuvole permisero ai matematici di misurare il gran circolo della terra, e agli astronomi di «sublimare lo spirito elevandosi dal piccolo pianeta dove gli uomini trascorrono la loro passeggera esistenza», come raccontò lo storico inglese Edward Gibbon, famoso per aver tracciato nel Settecento le tappe della civilizzazione dell’Occidente.



