«“Margaret, sei stata invitata a venire al mondo, di questo dovrai essere sempre fiera”, mi diceva mia madre. […] Nel mio caso, l’invito ebbe un successo straordinario e non solo venni al mondo come era stato richiesto, ma addirittura il giorno esatto in cui avevano deciso dovessi arrivare».
Così inizia Il mio ritratto(1), edizione italiana dell’autobiografia Portrait of Myself (New York, 1963) di Margaret Bourke-White. Un inizio fiero, che spazza via qualsiasi
esitazione. Un destino scritto fin dalla nascita. Eh già, perché la grande fotografa americana, capace di stare in equilibrio sui cornicioni o sui tetti
di palazzi e addirittura grattacieli pur di realizzare il miglior scatto possibile, nasce il 14 giugno 1904 a New York. Un giorno speciale che coincide
con il “Flag Day”, in cui si celebra l’adozione della bandiera statunitense a stelle e strisce cucita, si narra, da Betsy Ross, sarta e patriota di
Filadelfia. E giorno del matrimonio dei suoi genitori, Joseph White e Minnie Bourke, di origine ebraica l’uno, irlandese l’altra. Ingegnere e inventore
lui, casalinga lei, con una spiccata vocazione per l’insegnamento. È la madre a trasmettere a Margaret, alla sorella Ruth e al fratello Roger virtù
quali il coraggio e la determinazione, convinta, come peraltro suo marito, che solo così i figli avrebbero potuto superare qualsiasi paura(2). Impresa riuscita, a vedere con quanta sicurezza la fotografa impugna una macchina di grande formato seduta su un doccione (simile a quelli che
sporgono dalle sommità delle cattedrali gotiche), all’ultimo piano del Chrysler Building di New York, a circa trecento metri da terra, dove nei primi
anni Trenta apre il suo studio. L’autore dello scatto è Oscar Graubner, suo fedele collaboratore, eccellente stampatore e pure fotografo.
Un’immagine-simbolo dell’audacia di Bourke- White, pronta ad affrontare il pericolo, a fare i conti con il vuoto e a provare ciò che le suscita forte
emozione: l’altezza.