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Un’intera serie di anni futuri dipenderà proprio dai contatti che devo farmi in città, o qua ad Anversa, o
più tardi a Parigi». Così scrive Vincent a Theo nel gennaio 1886 dalla città fiamminga dove si è appena iscritto all’École des Beaux-Arts con
l’intenzione di perseverare nel suo cammino di artista. Quel «più tardi a Parigi» in realtà arriva molto presto: questione di un mese e Vincent
parte con decisione repentina per la capitale francese. Là il fratello è direttore di una piccola galleria d’arte sul boulevard Montmartre per conto
della Boussod e Valadon, ex Goupil, la ditta che lo ha assunto stabilmente dall’ottobre 1879.
«Devo guadagnare un po’ di più o avere più
amici, e preferibilmente entrambe le cose. È questa la strada del successo», aggiunge Vincent nella stessa lettera. È di nuovo pieno di entusiasmo,
ha voglia di farsi un nome nel mondo dell’arte; ha perfino deciso di mettere da parte la sua natura ribelle e schiva e di piegarsi docilmente alle
leggi che regolano la via della riuscita. Ma a quel punto, perché non tentare il tutto per tutto e scegliere il meglio? E all’epoca, il meglio per
un aspirante artista è senza dubbio Parigi, la città che in quegli anni è l’ombelico del mondo, il trampolino di lancio per quanti sappiano cogliere
al volo le mille occasioni e le infinite sollecitazioni che sono nell’aria, l’avamposto della ricerca tecnologica e artistica. Parigi è la metropoli
del futuro dove sono da poco nate la fotografia e il cinema dei fratelli Lumière, è la culla dell’impressionismo che ha inaugurato un modo
rivoluzionario di dipingere, è il luogo in cui si sta innalzando l’incredibile mole in ferro della Tour Eiffel che presto sconvolgerà il vecchio
panorama urbano, è la meta di rendez-vous culturali e mondani imperdibili come l’Esposizione universale, i Salon (quello ufficiale ma anche il
neonato Salon des Indépendants), le mostre di grido nelle gallerie d’avanguardia e nei caffè artistico-letterari, è infine la capitale del piacere,
con i suoi famosi locali notturni, primo fra tutti il Moulin Rouge.
Vincent giunge a Parigi il 28 febbraio 1886. Theo non sa del suo
arrivo fino all’ultimo momento, quando un biglietto del fratello che gli chiede un appuntamento al Louvre lo raggiunge nel suo ufficio. Va da sé che
Theo lo accoglie a casa sua, prima in rue Laval (oggi rue Victor-Massé), vicino a Pigalle, e poi, dal mese di giugno, al numero 54 di rue Lepic, nel
quartiere di Montmartre, dove prende un appartamento più grande e più confortevole. Animati da grandi speranze, i due fratelli iniziano una
convivenza che sulla carta sembra offrire solo vantaggi: per Vincent non ci sarà più lo stillicidio e l’attesa spesso tormentosa dell’assegno
mensile di Theo, mentre la gestione comune delle spese potrà ridurre gli eventuali sprechi. Inoltre le conoscenze di Theo e la frequentazione
dell’ambiente artistico parigino si preannunciano decisamente favorevoli per gli sviluppi della carriera artistica di Vincent. In capo a due anni,
tuttavia, l’esperimento si rivelerà fallimentare; colpa del brutto carattere di Vincent e della sua fondamentale incapacità a relazionarsi con gli
altri, compreso l’adorato fratello: «È come se in lui vi fossero due persone», osserverà Theo sgomento, «una stupendamente dotata, squisita e dolce,
l’altra egoista e di cuor duro!».
Van Gogh resta nella capitale francese dal febbraio 1886 al febbraio 1888. Per la sua arte sarà un
periodo decisivo, il momento della sperimentazione tecnica e del confronto con le tendenze più innovative della pittura contemporanea. E saranno due
anni molto fecondi anche dal punto di vista del numero di opere eseguite, duecentotrenta dipinti, più che in qualsiasi altra fase della sua
carriera. Si tratta di un gruppo di opere eterogenee che inglobano e mescolano vari stili e varie tecniche, alla ricerca di un linguaggio che una
volta messo a punto risulterà personalissimo.

