1901 olio su tela cm 84 x 42 Vienna, Österreichische Galerie Belvedere
giuditta, personaggio biblico alternativo a David re e pastore d’Israele, è stata raffigurata nel corso dei
secoli da moltissimi artisti. Si pensi alle interpretazioni di Donatello e Botticelli, senza dimenticare quelle di Caravaggio e Artemisia
Gentileschi. In più di un’occasione la vergine guerriera è stata scambiata per Salomè, con cui condivide iconograficamente la macabra
esibizione di una testa mozzata, in un caso quella di Oloferne, nell’altro di Giovanni Battista. Anche l’opera di Klimt, presentata alla X
mostra secessionista nel 1901, generò confusione e scandalo tra i suoi ammiratori, sebbene il titolo sbalzato in cornice non desse adito a
dubbi. L’eroina, esempio di castità e coraggiosa determinazione, viene trasformata dal pittore viennese in un’immagine modernissima di donna
fatale e crudele. “Ci si immagina questa Giuditta vestita con abito di paillettes”, ebbe a esclamare lo scrittore Felix Salten all’epoca.
Ci troviamo di fronte, infatti, a una donna seduttiva, armata di bellezza e mistero, vestita alla moda, con ricchi gioielli arcaizzanti
come la veste e lo sfondo in cui si riconoscono citazioni di un rilievo assiro. Come in Pallade Atena, ma in modo ancor più deciso, Klimt
coniuga anche in Giuditta I il modernismo con l’arcaismo, che per il Nostro è sinonimo di distanza, un tempo depositario di esoteriche
verità, tanto quanto l’inconscio da cui risalgono le sue potenti invenzioni figurative. In questo senso i repertori tanto usati da Klimt
rispecchiano quella che, negli anni trenta, Henri Focillon chiamerà la Vita delle forme, ovvero l’autonomia nel tempo di modelli
temi e textures che accomunano tutta l’esperienza artistica dell’umanità. Tutto questo era ben presente negli insegnamenti
che all’Università di Vienna erano teorizzati dal grande storico dell’arte Alois Riegl (1858-1905). In Problemi di stile, del
1893, Riegl sosteneva che lo stile geometrico non era il prodotto materiale di una tecnica artigianale (secondo le tesi della cultura
positivista allora in voga), bensì il vero frutto di un elementare impulso artistico che nella decorazione raggiunge la sua più alta
espressione proprio perché non finalizzato ad alcun contenuto. Il metodo archeologico dell’artista va inoltre associato alla coeva
scienza psicaonalitica che interroga l’inconscio per comprendere le forze che lo abitano. In questo caso è la potenza originaria del
femminile che lo svizzero Johann Jakob Bachofen (1815-1887) aveva descritto come forza centrifuga contraria a quella maschile, invece
centripeta. Nello sguardo di questa Giuditta scorgiamo la dolcezza che affascina e il piacere che può anche uccidere (temi già cari a Charles
Baudelaire), il nodo inestricabile di vita e di morte che può tanto elettrizzare quanto pietrificare. Fissando quel volto e quel corpo,
arrossato di voluttà, cediamo a una promessa che scopriamo essere un atto di castrazione, come pare significare la testa decapitata, appena
riconoscibile nell’angolo di destra. Klimt ripeterà il soggetto nel 1909, in uno stile influenzato dall’arte dei più giovani Schiele e
Kokoschka. La seconda Giuditta assume un carattere ancora più perturbante. Nel corpo tormentato, isterico della donna vestita di
un lussuoso abito nero, come di sposa vedova, è possibile riconoscere l’inquietante manifestazione di un profondo malessere:
l’esperienza della morte nel gorgo di piacere e dolore.