la culla

1917-1918
olio su tela
cm 110 x 110
Washington, National Gallery of Art

il neonato nella culla è quasi invisibile. Dobbiamo andare a cercarlo sotto una montagna di cenci colorati. La testolina sbuca in cima e sembra quella di una marionetta, una maschera che sorride col ghigno di un demone, come un piccolo idolo apotropaico. Alla fine della sua esistenza Klimt guarda l’inizio della vita. Quel “piccolo Buddha” conosce il destino dell’uomo tra futuro e passato, può leggere le linee della vita sul palmo della mano del vecchio pittore. Nei suoi occhi riconosce gioie e dolori, gloria e fallimento di tutta una civiltà. Siamo nel 1918 la terribile strage è compiuta, la Prima guerra mondiale è alla fine e il grande impero austriaco si è dissolto nello scontro fratricida che ha ferito a morte il continente europeo. La culla, assieme ad altre opere (ad esempio, La sposa e Adamo ed Eva), rimase incompiuta nello studio dell’artista alla sua morte prematura e improvvisa. La composizione è rigorosamente strutturata in piani geometrici essenziali, tre partiture triangolari, di cui una zona centrale, quella multicolorata, occupa la quasi totalità della scena. L’ammasso disordinato delle pezze di stoffa è in realtà studiato, una dissonante armonia come una musica espressionistica di quegli anni. Klimt è a conoscenza degli sviluppi dell’arte moderna, ha in mente i dipinti di Matisse e quelli di Picasso, i Fauves e il cubismo, quelli di Kandinskij e di Kupka, e ha compiuto un viaggio in Moravia l’anno precedente (1917) imbattendosi nell’arte slava. Egon Schiele e il “selvaggio” Oskar Kokoschka, due tra i suoi migliori allievi, lo hanno, inoltre, superato per coraggio sperimentale, proponendo immagini e colori che senza filtri denunciano il malessere, perfino l’angoscia esistenziale, dopo l’ebbrezza della Belle Époque. Non è più tempo di lustrini e paillettes, di fuochi d’artificio e can can. Il dipinto infatti non manifesta un momento di gioia e di speranza come dovrebbe essere al momento della nascita; colori e fantasie trasudano ben altri sentimenti, una esperienza negativa della vita, perché come rispose Sileno a Re Mida. “Meglio sarebbe non esser nato.” Chi guarda, spettatore o autore, è fuori del quadro, e si protende verso il bimbo. Guarda con affetto l’innocente neonato, ma ne avverte l’energia, quella che gli servirà a breve per stare in piedi e non cadere. L’impressione generata dall’ammasso piramidale di tessuto e dalla posizione al vertice del “bambolotto” parla chiaro: il protagonista delle nostre attenzioni è in basso, e la culla è come un campo di battaglia disfatto, una massa quasi informe che sembra stia per soffocare la inerme creatura. Va detto, infine, che l’infanzia era stata sottoposta ad analisi da Freud già da qualche decennio, e il mondo dorato del puer aeternus si era rivelato epoca di scontro, anche traumatico, tra inconscio (sede di pulsioni e istinti), Io, e Super-Io. Sigmund Freud aveva spiegato come il neonato, rappresentato anche in arte come angioletto asessuato, venga in verità trascinato da impulsi sessuali fortissimi, e come in quella fase di vita si plasmi la coscienza dell’uomo adulto, la sua capacità o meno di vivere il piacere - e più in “alto” il Desiderio -, condizionando la qualità delle relazioni affettive o amorose. Klimt alla fine della sua carriera continua a interessarsi al mistero della vita e della sessualità in rapporto alla morte, cerca ancora risposte e si pone domande sulla natura dell’eros femminile senza soccombere alla morale vigente. Ne sono prova opere come La vergine e Le amiche o la già citata Sposa. Il testamento artistico di Klimt, pittore-filosofo, viene però consegnato a quest’immagine di commiato, in cui inizio e fine si guardano faccia a faccia e la culla può farci pensare a un sarcofago. O forse più semplicemente, l’uomo e non il genio, avrà ricordato un momento tragico della sua vita, la morte precoce di Otto, nato nel 1903 dall’unione con la bellissima Mizzi (Marie Zimmermann) sua modella e pittrice dilettante.
Klimt, negli ultimi anni di vita e di lavoro, ha compreso e assimilato le nuove avanguardie - espressionismo e astrazione - e non può non mantenere in piedi la tradizione. Nondimeno, quella quasi totalità di quadro, dedicato interamente alle forme e al colore, ci fanno pensare alla pratica quotidiana della pittura; sono un gesto libero, autonomo e trionfante di quella “vecchia cosa” che è la pittura… che presenta se stessa al di là di quei pretesti che sono i soggetti.