Il cosiddetto “periodo d’oro” o bizantino di Klimt ha una data di esordio ben precisa, il 1903. In quell’anno, difatti, l’artista si reca per ben due volte a Ravenna per studiare i mosaici bizantini di San Vitale. La foglia d’oro è una riscoperta preziosa sia per gli artigiani e gli artisti della Secessione viennese ma anche per gli architetti; basti pensare alla cupola d’alloro dorata realizzata da Olbrich per il Palazzo della Secessione a Vienna.
La sfera di foglie dorate d’alloro, pianta sacra ad Apollo e ai poeti laureati come Petrarca, possiede in questo caso un valore
estetico che rimanda alla autonomia dell’arte e al suo valore “aristocratico” che si sottrae al flusso ordinario della vita quotidiana.
Anche per Klimt, il ricorso alla foglia d’oro e alla iconografia bizantina ha una sua “sacralità estetica”, del tutto
particolare, che pone lo spazio della pittura in un altrove ben distante e separato dalle immagini della realtà.
Contemporaneamente alle esperienze pratiche e funzionali della Wiener Werkstätte, con le loro decorazioni “dorate” di forme
metalliche, Klimt elabora e progetta, una personale visione della propria esperienza pittorica e una collaborazione con architetti e
artigiani nelle commissioni per le allegorie dell’Università di Vienna, per il Fregio di Beethoven per il Palazzo della Secessione e
infine per il Palazzo Stoclet di Bruxelles. In altre parole, mentre è impegnato in importanti commissioni pubbliche condivise, più o meno
tormentate, Klimt dal 1903 al 1908 si cela, nasconde la propria apparizione pubblica, in veste di pittore, prima di mostrare al
pubblico viennese la sua nuova opera al Kunstschau di Vienna nel 1908; apparizione “rinnovata” che ebbe grande successo.
L’originalità e la grandezza di Klimt risiede forse proprio in questa sua straordinaria capacità di intercettare e di rendere
proprie forme, stili e motivi ornamentali che dall’arcaismo greco-romano ora si trasfigurano nell’assoluta bidimensionalità bizantina in
un orizzonte atemporale che comprende una Bisanzio allegorica in cui William Butler Yeats (Sailing to Byzantium, 1927) si unisce, nel
tempo, alla Fuga da Bisanzio di Iosif Brodskij (1996).
al 1903 in poi Klimt diviene il pittore ufficiale del gran mondo viennese. Abbandona rapidamente gli stilemi della Secessione per
creare uno sfondo dorato in cui il volto, la figura, la stilizzazione geometrica producono (per non ripetere creano) dei modelli, ancora
attuali, che dalla grande pittura trasmigrano sino alle cover dei nostri smartphone.
Pensiamo, in rapida rassegna, alla Giuditta, alla Danae, al ritratto di Sonja Knips, sino al Bacio o a quel capolavoro
che è Adele Bloch-Bauer I, solo per fare alcuni esempi. Bisanzio, come ultimo storico avatar della civiltà greco-romana diviene
dunque una forma originale di riconversione, o meglio di sublimazione, dell’eros, del desiderio e della seduzione e della figura
femminile in versione “donna fatale” che sottende, in maniera discreta e forse sottaciuta o rimossa, a quel grande mistero della
sessualità. A differenza dell’allora giovane Kokoschka, che in quegli anni andava espressionisticamente direttamente al cuore della
sessualità e dei suoi conflitti, anche in maniera provocatoria, Klimt si ritaglia un suo spazio pittorico in cui storia, mito e
contemporaneità trovano una nevrotica compresenza in ritratti femminili che paradossalmente sono caratterizzati da una strana e iconica
commistione di inattualità nietzschiana e presenza contemporanea.
La mostra alla Kunstschau del 1908, in cui Klimt sarà presente con un cospicuo numero di opere, segna un passaggio significativo
in cui, una “comunità di artisti” si contrappone a un singolo e singolare artista che rapidamente abbandona metodi e processi di un passato
prossimo a favore di una personalissima reinterpretazione della modernità.
Klimt, infatti, nel volgere di pochi anni, mescola lo stile dorato o bizantino alla ritrattistica parziale e scorciata delle gran
dame dell’alta borghesia viennese. La stilizzazione che comprende ritratti che vanno da Margaret Stonborough-Wittengestein a Fritza
Riedler, sino ad Adele Bloch-Bauer sono tutti realizzati con un procedimento in cui lo sfondo del quadro assorbe quasi completamente
la figura. Come nei mosaici bizantini, così come era stato per le figure greche, non vi è differenza tra figura e sfondo; è
l’ambiente che veste la donna, la figura femminile, che a sua volta decora e determina lo sfondo.
Volto femminile, vestito, decorazione e sfondo si mescolano insieme e contemporaneamente, su una superficie bidimensionale, ove
geometria, doratura ed espressione (dello sguardo, degli occhi) creano un corto circuito estetico che ancor oggi mostra la sua grande
attualità.
Tutta questa strana ma intenzionale messa in scena dichiara e spiega, o meglio presenta e rinnova, l’atemporalità e
l’iconicità di opere di Klimt, come Il bacio, che si ripresentano ai nostri occhi come repertori di un eterno presente.
Nella Vienna di Freud, nella Vienna espressionista di Schiele o di Kokoschka, nella Vienna di Adalbert Stifter o di Robert Musil, e
persino nella dissonante e atonale Vienna musicale di Arnold Schönberg, persiste e ritorna una Vienna di Klimt che si ripresenta, ancora
oggi, in forme e contenuti in cui la dissonanza, la sensualità e l’erotismo assumono una maschera e una postura in cui grandi conflitti
psicologici e sociali si risolvono in maniera brillante e apparentemente decorativa in scorci e sprezzature di grande pittura. È sulla
superficie delle cose, che forse si gioca il destino, irrisolto, delle nostre contraddizioni e delle nostre immagini. E su queste
immagini, sicuramente, Klimt è stato un grande maestro. Si tratta sempre e comunque di una questione di sguardi; e per Klimt di sguardi
che si concentrano su un volto che emerge da una superficie decorata, da uno sfondo che assorbe la figura intera, a parte il volto.
Esse est percipi, come affermava la Scolastica nel Medioevo e Samuel Beckett, molti secoli dopo. Oggi potremmo dire ciò che resta, o
per Klimt ciò che si afferma in un mondo fluido… in un film.