Non considero “saggi” nel senso tradizionale del termine gli scritti che seguono; parlerei piuttosto di “approssimazioni” [...]. Vorrei
sottolineare il fatto che nessuno di questi lavori esaurisce il proprio soggetto, ma riesce al massimo ad approssimarsi ad esso.
Imre Kertész
Vita e morte le pronuncio con una nota in calce, con un asterisco...
Marina Cvetaevafuori testo. Margini.1 Abbiamo uno straordinario ritratto di Empedocle dipinto da Luca Signorelli nel
Duomo di Orvieto a lato del giudizio universale. Empedocle emerge da un buio cratere rotondo. Si protende all’indietro con il gomito
sinistro appoggiato all’orlo del cratere per sostenere il peso del corpo nella tensione dello sguardo verso il fuori. La mano destra
è sollevata, aperta all’altezza del volto. Da una sorta di rosso turbante, trattenuto sul capo da una fascia bianca, scendono dei riccioli
biondi fin sulle spalle coperte da una giubba color oro. Un ciuffo esce dal turbante sulla fronte, parallelamente alle dita della mano aperta:
l’indice e il medio tesi, l’anulare e il mignolo leggermente flessi. Vediamo il suo volto di mezzo profilo. Gli occhi sono aperti, e un sorriso
apre il suo viso a ciò che egli vede. Sui libri di storia dell’arte leggiamo: “Empedocle si sporge a guardare il finimondo”. I libri di
storia dell’arte sono ingannevoli. Se seguiamo la direzione del suo sguardo vediamo ciò che egli vede. Non è il finimondo.
Capri, ippogrifi, delfini, strani animali alati, cavalieri, che si intrecciano in uno straordinario arabesco su uno sfondo dorato.
La scena, al bordo inferiore del cratere, si fa ancora più ricca: la fenice, divinità paniche e dionisiache, e metamorfosi che mescolano
l’umano al naturale, e il mondo cosiddetto reale al mondo immaginale. Empedocle, nel ritratto di Signorelli, guarda
fuori del quadro, fuori della pagina: atopos, desituato, forse persino felice.