LA FERitA SEGRETA.
REMBRANDT E GIACOMETTI

Bisogna essere morti più volte per dipingere così. [...] Rembrandt sonda così profondamente il mistero che dice cose per le quali non ci sono parole in nessuna lingua. 
Vincent Van Gogh 

Non c’è altra origine per la bellezza, che la ferita, individuale, irripetibile, che ogni uomo custodisce in sé e difende [...]. Mi sembra che l’arte di Giacometti miri a svelare questa ferita segreta comune a tutti gli esseri e persino a tutte le cose. 
Jean Genet 

1.Jean Genet, come racconta il suo biografo Edmund White, incontra l’opera di Rembrandt a Londra e ad Amsterdam nel 1952 e nel 1953 al culmine di un’esperienza per lui sconvolgente, che ha luogo in un momento di crisi profonda e di inerzia creativa.1 A lungo coltiva l’idea di un libro su Rembrandt, che a un certo punto, verrà dato come imminente in occasione della pubblicazione, il 4 settembre 1958, di un breve testo su “L’Express” intitolato Il segreto di Rembrandt, che viene appunto presentato come un estratto di questo stesso libro dichiarato in uscita. Nel 1968 verrà pubblicato su “Tel quel” un altro frammento di questo libro di cui, per altro, non restano altre tracce. Questo testo era già stato pubblicato in inglese nel marzo del 1964 su “Art and Literature” e, nello stesso mese, in italiano sulla rivista “Il menabò”. Si tratta di un testo che parla di Rembrandt, ma accompagnato da un breve scritto che narra di un’esperienza sconvolgente, che per Genet si associa all’incontro con Rembrandt. Il “Menabò” intitola questi due testi Il mio antico modo di vedere il mondo e Il nostro sguardo. I due testi compaiono poi su “Tel quel” con un titolo completamente diverso: Che cosa è rimasto di un Rembrandt strappato in pezzetti tutti uguali e buttato nel cesso. Per questa pubblicazione Genet ottiene che il testo, che racconta della sua esperienza sconvolgente, e il testo su Rembrandt, compaiano in due colonne affiancate, come se uno potesse illuminare l’altro o come se uno potesse trarre giustificazione dall’altro. Questa impaginazione ha colpito a tal punto Jacques Derrida, che la ripropone in Glas, libro consacrato a Genet su una colonna e a Hegel sull’altra.2

Dunque due testi, due frammenti su Rembrandt. E qui la mia decisione di affiancare a questi due testi, altri due testi, Il funambolo e L’atelier di Alberto Giacometti. Sta di fatto che se l’esperienza Rembrandt è precedente all’incontro con Giacometti e con Abdallah Bentega, avvenuto nel 1956, che gli ispira Il funambolo, questi quattro testi vengono comunque scritti quasi contemporaneamente. Tra il marzo e l’aprile del 1957 vengono scritti Il funambolo e L’atelier di Giacometti. Il segreto di Rembrandt, uscito nel 1958, è però anch’esso “perfettamente contemporaneo” al saggio su Giacometti, come scrive Simonet nella sua nota a Rembrandt, che abbiamo citato più sopra. Anche il testo pubblicato su “Tel quel”, Che cosa è rimasto..., è a mio giudizio diventato possibile proprio nel quadro di questo quartetto - i due Rembrandt, Il funambolo, e Giacometti - in cui si definisce l’estetica e la poetica di Jean Genet, che si stacca definitivamente da quanto aveva scritto in passato. La scoperta sconvolgente, fatta in un vagone di terza classe, che ogni uomo è uguale ad ogni altro uomo, la scoperta che anche per Rembrandt esisteva un’unica umanità, così come anche per Giacometti, è una conquista radicale e dolorosa. A questo punto egli sapeva di volersi sbarazzare “dell’erotismo, per tentare - scrive - di bandirlo da me, di allontanarlo ad ogni costo”. Rembrandt e “un sesso eretto, congestionato e vibrante” contrapposto al “fragile sguardo”, che egli ha scoperto” in Rembrandt, che egli ha scoperto in sé e che vuole conservare come una cosa preziosa.3 Un fragile sguardo, come scopriremo, e un’infinità bontà che si lega inscindibilmente e paradossalmente alla crudeltà che è propria dell’arte. Ma la crudeltà artistica è comunque altro rispetto alla potenza espressa da un fallo, che si erge “in un selva di peli neri e ricciuti”, e che chiede dominio.