CON L’OCCHIO DI CHI HA FEDE 

la Pietà vaticana si colloca, dunque, in una stagione precisa dell’arte italiana, quasi ad aprire una seconda fase del Rinascimento. Ciò è ancor più vero se pensiamo alla carriera dello stesso Buonarroti: la Pietà segue la raffigurazione di un dio pagano (il Bacco del Bargello) e precede il David (1501-1503), capolavoro del primo Cinquecento eppure opera di una stagione classicista dell’arte di Michelangelo, ancora lontana dalle forme più cupe e dissonanti dei decenni successivi, quali ad esempio quelle delle figure della Sagrestia Nuova di San Lorenzo a Firenze e del Giudizio Universale della Sistina di Roma; agli antipodi della Pietà Rondanini, “la cui mesta bellezza divampa nel crepuscolo della figura”.182 Come abbiamo detto, il committente e lo scultore non hanno inteso rendere testimonianza della passione di Gesù, piuttosto hanno voluto ricordare ai fedeli il fine ultimo e salvifico dell’Incarnazione, cioè che il corpo del nuovo Adamo sarebbe risorto intatto, come nel salmo 15 (v. 10): “Non permetterai che il tuo Santo veda la corruzione”, citato pure da Pietro negli Atti degli Apostoli (2, 27-31). Pertanto Michelangelo non romanza nel gruppo marmoreo il sacrificio di Cristo che trasforma invece in un’immagine di speranza, cui ritornare in adorazione, oltre il tempo malinconico del vespro. La Pietà si faceva dunque reliquia scultorea. Quando la Pietà venne spostata intorno al 1520 in un luogo di straordinario culto come San Pietro, ecco che prese a rivaleggiare con la Sindone e la Veronica nell’immaginario dei credenti sedotti dal risultato creativo. Del resto, questo sostanziarsi in pietra dell’immagine di Gesù avvalorava per l’artefice il superiore realismo della scultura sulla pittura (persino quella “marmorea” di Andrea Mantegna, vedi il Cristo sorretto da due angeli, o quella epifanica di Sandro Botticelli, come nella Venere). 

In altre parole, l’artista e il committente si sono concentrati su un paradosso del tutto cristiano, quello che riguarda l’incarnazione del Verbo nella persona fisica del Nazareno, anzi, del Nazareno a trentatré anni. Ovvero sul transito dal Logos al nostro involucro di carne, come dall’idea alla figura scolpita. Così infatti lo descrisse puntigliosamente lo stesso Buonarroti al Condivi: “volendo mostrare che ’l figliuol de Iddio prendesse, come prese, veramente corpo umano e sottoposto a tutto quel che un ordinario omo soggiace, eccetto che al peccato, non bisognò col divino tener indietro l’umano, ma lasciarlo nel corso e ordine suo, sì che quel tempo mostrasse che aveva apunto”.183 Con queste frasi si voleva sottolineare la verità naturale e storica delle più alate creazioni michelangiolesche, laddove il registro del reale in quelle prime opere non si era distaccato da un piano più lirico, quasi che in epoca di nascente riforma cattolica il vegliardo volesse polemizzare con quegli artisti che non erano stati capaci di congiungere realtà e trascendenza, “divino” e “umano”. Tornando indietro al biennio 1498-99, il corpo fisico del Cristo fu scolpito da Michelangelo appoggiandosi al dato empirico e naturale delle ossa e dell’attacco dei muscoli; anzi, egli tenne conto delle vene, dei tendini, infine della pelle, e trovò ragione e verità storica riconoscendo il “divino” in un’anatomia adeguata ai trentatré anni del Salvatore.