tra il 1497 e il 1498 Michelangelo venne scelto da Jean Bilhères de Lagraulas perché il fine oratore e diplomatico ne aveva ammirato il lavoro artistico svolto per l’amico cardinale Raffaele Riario, grazie al quale il porporato guascone era divenuto governatore di Roma: a rappresentare nella capitale della cristianità la presenza vigile e culturalmente attiva di un partito curiale filo-francese. Jacopo Galli, banchiere di fiducia del camerlengo Riario, fece da intermediario tra l’artista e Jean Bilhères. In più garantì al nobile francese che la Pietà (“una Vergene Maria vestita, con un Christo morto in braccio, grande quanto sia uno homo giusto”) sarebbe apparsa “la più bella opera di marmo che sia hoge in Roma, et che maestro nisuno la faria megliore hoge”.27 Con questa affermazione, il Galli si faceva forte del classicismo emerso nel Bacco che Michelangelo aveva appena scolpito per conto di Riario in casa sua. Jacopo Galli era certo di quanto affermava: Michelangelo era l’unico in grado di sopravanzare i colleghi contemporanei (per esempio Andrea Bregno), anzi, il solo a poter competere con le opere antiche (“la più bella opera di marmo che sia hoge in Roma”).
Ora nella Pietà vaticana il corpo del Messia - sebbene tutti sapessero che l’uomo era stato flagellato, crocifisso e trafitto da una lancia - non somiglia in nulla a quei fantocci di carne che sono i morti ammazzati. Questa assenza di realismo quaresimale, di voyeurismo rituale, originò in un approccio antichizzante. Spieghiamoci meglio. Guidato in questo agone dall’ambiente sopra evocato (e che in qualche misteriosa maniera comprendeva pure la figura apparentemente prosaica di Raffaele Riario), Michelangelo doveva scolpire due personificazioni del “pantheon” cristiano (la Madre e il Figlio) da un solo pezzo di marmo. A tutti era chiaro che da questo punto di vista il confronto veniva a includere anche il mito del Laocoonte, gruppo realizzato da tre artefici di Rodi e fulcro decorativo del palazzo romano dell’imperatore Tito. Difatti, lo scultore fiorentino e il prelato guascone sapevano da Plinio che, lavorando in perfetta collaborazione,29 Agesandro, Polidoro e Atanodoro erano riusciti a trasporre la morte tragica di Laocoonte e dei suoi due figli nel marmo puro di un unico blocco.30 L’esempio della scultura ex uno lapide era divenuto solo un canone letterario nel medioevo, quando l’ambizione intellettuale che stava dietro ad alcune opere classiche e al loro virtuosismo venne misconosciuta per vari motivi storici e culturali. Del resto, la triste storia di Laocoonte cantata da Virgilio31 avrebbe potuto fornire al Buonarroti suggestioni e pretesti per vestire di elementi classici la rappresentazione del corpo martoriato di Gesù e il dolore di Maria dinanzi alla morte violenta del figlio, mutuando cioè immagini evangeliche dalle sofferenze del sacerdote troiano e della sua prole. Per esempio, il passaggio di grande potenza nel quale Virgilio racconta gli sforzi quasi bestiali di Laocoonte nel difendersi dalle spire mortali dei serpenti marini. Attaccato dai draghi, “egli si sforza di sciogliere con le mani i nodi / inondato nelle bende sacerdotali di bava e di nero veleno, / e insieme alza al cielo orribili grida / come muggisce il toro, che, ferito, fugge dall’ara, / dopo aver scosso dalla cervice la mal vibrata scure”.32 Eppure così non fu, perché il riferimento al gruppo del Laocoonte non riguardò i contenuti patetici virgiliani, ma rimase confinato al giudizio tecnico dato da Plinio.