IL VERBO SI FECE MARMO

così Michelangelo non solo ha fissato in pietra l’identità del Messia, concepito come uomo e Dio assieme, la sua doppia natura nell’unica persona del Cristo (quale per esempio in Giovanni, 1, 14: “e il Verbo si fece carne”), ma ha anche prospettato la speciale relazione tra Gesù e sua madre, cui sant’Agostino allude in più occasioni. Per il vescovo d’Ippona Maria era “madre della debolezza che Cristo aveva assunto in noi”47 e, come si legge nel Vangelo di Giovanni (2, 4), proprio il Messia aveva spiegato la loro relazione: “Tu non hai generato la mia divinità, ma poiché hai generato la mia debolezza, ti riconoscerò quando questa debolezza penderà dalla croce”.48 Gesù “come Dio non aveva madre, come uomo l’aveva”, quindi Maria “era madre della carne, madre dell’umanità, madre della debolezza che Cristo aveva assunto per noi”.49 Perciò sul Golgota “non moriva colui attraverso il quale era stata fatta Maria, moriva invece ciò che era stato fatto da Maria; non moriva la divina eternità, ma la debolezza della carne”.50 È quindi possibile che il cardinale francese (e di conseguenza lo scultore fiorentino) abbia meditato su Agostino nella concezione della Pietà. Vale la pena citare altre frasi dal Commento a Giovanni: “Venne infatti attraverso una donna, una madre, Lui che è Dio e Signore del cielo e della terra. In quanto Signore del mondo, Signore del cielo e della terra, è Signore anche di Maria; in quanto creatore del cielo e della terra, è creatore anche di Maria; ma in quanto è detto: ‘nato da donna, nato sotto la Legge’, è figlio di Maria. Egli è Signore di Maria, è figlio di Maria, è creatore di Maria, è creato da Maria. Non meravigliarti del fatto che è contemporaneamente figlio e Signore”.51 Per quella contemporaneità di natura divina e umana dobbiamo guardare alla virginale Maria di Michelangelo come sognata al momento dell’annunciazione, e riconoscere nel Cristo il “figlio di Maria secondo la carne” e il “Signore di Maria secondo la maestà”.52

Nella Pietà non compaiono ferite o piaghe dalla pianta dei piedi alla testa, lo spettacolo abbietto ma venerabile del supplizio della croce sopra il corpo pesto del Redentore (come lo vedrebbe Isaia53), le lacrime e l’immensa tristezza cui fa riferimento tanta letteratura (per esempio in Tertulliano, e poi con Jacopone da Todi, Jacopo da Varazze, fino a Girolamo Savonarola54). Piuttosto che far irrompere nel marmo la lauda drammatica, l’afflizione e il sangue, la tragedia cristiana è solo allusa e i segni più viscerali vengono evitati o sfumati, come nel caso delle stimmate appena riconoscibili. A contrasto con l’acuta sofferenza e l’aspra compassione che Andrea Mantegna dipinse nell’umanissimo ma tombale Cristo morto (tra l’altro compiuto solo una decina d’anni prima del lavoro del Buonarroti), il fiorentino addolcisce la morte del suo Dio evocando il sembiante di un sonno beato. Un’espressione di calmo abbandono distacca la figura di marmo dal ritratto cadaverico di Gesù, quel nazareno che tra i ladroni era rimasto appeso al legno della croce soffrendo fino alla morte. Ancora più radicalmente, Michelangelo supera la biografia del rabbi di Nazareth condannato dai romani e dagli ebrei, visto che, come abbiamo già detto, siamo in presenza di due sole figure invece delle molte ricordate dai Vangeli e rappresentate nei citati Mortori e Compianti quattrocenteschi. La narrazione, compressa intenzionalmente entro lo spettro di due sole voci, è irrorata di mistero, la cronaca sacra trascesa in un’epica del divino e veicolata attraverso la potenza virtuosistica dell’ex uno lapide richiesto come elemento di sforzo artistico da parte dello stesso committente.