in lotta con leonardo

la qualità quasi pittorica o grafica che la pietra ha assunto nel panneggio della Pietà, in modo particolare quello che copre la figura di Maria, potrebbe risalire all’influenza di artisti della generazione precedente, tra cui il primo da ricordare sarà Domenico Ghirlandaio, che insegnò a dipingere a un adolescente Buonarroti. Tuttavia116 l’enfasi data al volume delle stoffe che ornano il corpo della Vergine richiama lo stile delle sculture di Andrea Verrocchio, ma ancora più da vicino il suo allievo Leonardo da Vinci, il quale preparava figure di terra rivestite di panni per rendere i suoi rivoluzionari dipinti più aderenti al vero e più tridimensionali. Così ne scrive Giorgio Vasari: “addosso a quelle metteva cenci molli interrati, e poi con pazienza si metteva a ritrarli sopra a certe tele sottilissime di renza o di panni lini adoperati, e gli lavorava in nero e in bianco con la punta del pennello, che era cosa miracolosa”.117 Anche 66 gli scultori, come sottolinea il Vasari nella sua introduzione dedicata all’arte plastica, dovevano adoperare delle stoffe applicate a modelli in terra o in cera: “se le vuol poi far panni addosso che siano sottili, si piglia panno lino che sia sottile; e se grosso grosso; e si bagna, e bagnato, con la terra si interra, non liquidamente, ma di un loto che sia alquanto sodetto; e attorno alla figura si va conciandolo, che faccia quelle pieghe e ammaccature che l’animo gli porge; di che, secco, verrà a indurarsi e manterrà di continuo le pieghe. In questo modo si conducono alfine i modelli e di cera e di terra”.118 Michelangelo a Roma affrontò in marmo lo stesso problema di Leonardo pittore: ovvero la necessità di dare veridicità e logici contorni a un panneggio che alla fine del lavoro assumesse un valore essenziale nella presentazione del dramma rievocato. Difatti le vesti di Maria, ora spesse, ora fini, fanno da supporto alla salma di Cristo e danno voce ai sentimenti maternali della Vergine: una sofferenza la cui eco sprofonda nel cuore dei riguardanti. In tal senso, l’importanza dei panni, con le loro ammaccature e i loro ricaschi, richiama veramente le opere del Verrocchio, in primis l’Incredulità di san Tommaso per Orsanmichele a Firenze. Nelle due figure bronzee di Andrea la luce, prima di precipitare oltre la soglia della nicchia, illumina il gioco di sguardi, mani e pose con un’intensità espressiva che deve aver impressionato il giovane Michelangelo. Quanto accade nel serrato dialogo tra l’apostolo e il Messia rimbomba sulla strada all’altezza d’occhio dei passanti. Nelle ombre addensate tra le pieghe delle vesti, nella carne del Risorto appena scoperta, come di essere vivente e percepita come sanguinante, anche il fiorentino più incredulo poteva astrarsi dai rumori della sua città e tornare per un attimo spettatore del miracolo. Simile idea deve aver attraversato la mente di Michelangelo, che intendeva dotare la sua Pietà romana di un analogo gioco psicologico, di simili contrasti tra stoffa e carne, tutti animati altresì dalle luci di Santa Petronilla. Mancando l’azione tragica, dissimulati i segni della violenza sul corpo e quelli del dolore nel volto, i diversi piani del panneggio di Maria - ora avvolgenti, ora quasi tronchi - diventano un efficace dispositivo di comunicazione, veicolata tra l’altro dalla grandezza naturale delle figure e dall’intimità del contesto architettonico.

Così, come il Verrocchio e Leonardo, anche Michelangelo comprende che, senza l’apporto di ombre più o meno profonde e di luci più o meno brillanti, la sua scultura a due figure sarebbe apparsa piatta e monotona. Di conseguenza egli lavorò anche con il trapano, riuscendo a mantenere morbidezza tra una piega e l’altra proprio nelle ampie vesti della Vergine. Poi, con un successivo e prolungato lavoro “di lima”, effettuato con abrasivi e molto olio di gomito, arrivò a ottenere una superficie quasi smaltata, come d’alabastro, o liquida come di cera. Non per nulla il Vasari sostiene che lo scultore deve ottenere un risultato attendibile119 e gradevole nel “dare perfezione alla figura, volendole aggiugnere dolcezza, morbidezza e fine”.120 In tal senso il Buonarroti si è sforzato di sottomettere la dura pietra a un gioco preciso di contrasti luminosi, dove la luce zenitale o quella diffusa dalle candele scorressero sopra le linee che compongono l’assetto piramidale della Pietà e marcasse un susseguirsi di curve generate una dall’altra, ora in ombra ora in chiaro. Tutto questo lavoro sulle superfici investite dalla luce veniva a strutturare un aspetto teatrale, tale da rafforzare il tono lirico della Pietà giocato appunto tra rimpianto e aspettativa del futuro, tra dolore e speranza.