Con la Pietà nella Rotonda di Santa Petronilla, Jean Bilhères de Lagraulas lanciava un monito a se stesso e
ai potenti dell’epoca, in primis a quelli del suo paese, facendo lavorare Michelangelo sul tema dell’umiliazione che il
Dio incarnato aveva volontariamente patito a beneficio dell’umanità.134 Sistemando il bel gruppo sopra una base non troppo elevata, l’artista
e il cardinale sapevano di costruire un ponte tra il divino e l’umano, concentrato sulla presente fisicità del Salvatore. Probabilmente il
cardinale si riferiva a sant’Agostino,135 per il quale Gesù “solleva fino a sé tutti quelli che gli si assoggettano, e, per i gradi inferiori,
si costruì una umile dimora con il nostro fango nella quale staccò da se stessi e attrasse a sé coloro che dovevano essere assoggettati;
guariva così l’orgoglio e alimentava l’amore, affinché essi in una eccessiva fiducia di sé non andassero lontano da Lui, ma, invece, si
facessero deboli vedendosi ai loro piedi la divinità fatta inferma per partecipazione del nostro involucro di carne, e affranti si
abbandonassero a Lui, ed essa, sollevandosi sollevasse pure essi”.136
Lui, ed essa, sollevandosi sollevasse pure essi”.136 La Pietà, derivata dal Vesperbild nordico, tratteneva dell’origine vespertina un sentimento di malinconia confacente al contesto funebre che Jean Bilherès de Lagraulas non aveva voluto allestire anzitempo per sé, cioè nel 1497, ma che venne a esser posto in atto dopo la sua dipartita. D’altronde la meditazione sul sacrificio divino, scolpita per un uomo ai vertici della gerarchia ecclesiastica e della politica europea, da una parte spronava l’artista a eccellere per corrispondere alle ambizioni dell’abate di Saint-Denis, dall’altra alimentava una girandola di considerazioni che potevano persino immalinconire il giovane Michelangelo, il quale si trovava a lavorare in una Roma scossa da una potente crisi religiosa dovuta in gran parte all’influenza nefasta del papa Borgia. Così il tema della Passione veniva a opporsi in modo sofisticato a una decadenza morale contemporanea, ivi compresa anche quella della chiesa, incarnata nel nepotismo dello stesso pontefice.137 Ciò sembra sintetizzato in un sonetto databile poco prima della Pietà: “Qua si fa elmi di calici e spade / e ’l sangue di Cristo si vend’ a giumelle, / e croce e spine son lance e rotelle; / e pur da Cristo pazienza cade. / Ma non ci arrivi più ’n queste contrade, / ché n’andré ’l sangue suo ’nsin alle stelle, / poscia che a Roma gli vendon la pelle, / e ècci d’ogni ben chiuso le strade. / S’i’ ebbi ma’ voglia a perder tesauro, / perciò che qua opra da me è partita, / può quel nel manto che Medusa in Mauro; / ma se alto in cielo è povertà gradita, / qual fia di nostro stato il gran restauro, / s’un altro segno ammorza l’altra vita?”.138 Il sonetto, forse pensato come un messaggio diretto ai fiorentini, è l’invettiva di un giovane accalorato contro Alessandro VI Borgia, il quale aveva minacciato di interdetto la città di Firenze, cosa che tra l’altro poneva nell’incertezza la possibilità dell’artista di rimanere a Roma.139 Soprattutto Michelangelo con un gioco di parole trasformava l’abituale sottoscrizione delle sue missive “Michelagnolo in Roma” in “Michelagnolo in Turchia”,140 per dire che la Roma del Borgia era un luogo tanto ostile ai valori cristiani quanto l’infedele Turchia. A nulla era valsa la Passione di Cristo se nel centro della cristianità il successore di Pietro si comportava da pagano. Nel sonetto, scritto con la verve e il pungente vocabolario tipico dei fiorentini, lo scultore alludeva anche ai suoi complicati rapporti con il potente Riario, e alle condizioni di sudditanza psicologica in cui lo aveva fatto lavorare nell’anno speso alle sue dipendenze. Infatti sotto la maschera pietrificante di Medusa (“quel nel manto che Medusa in Mauro”) si celerebbe proprio il cardinale di San Giorgio.141