dovendo risolvere un dilemma figurativo (rappresentare l’uomo-Dio, colui che uscì intatto dal sepolcro per la
salvezza del genere umano), Michelangelo si è rapportato anche agli insegnamenti di Leon Battista Alberti, teorico di riferimento per
ogni artista nato a Firenze prima della fine del Quattrocento. Sembra che Michelangelo segua le idee dell’Alberti quando nei dettagli della
Pietà dimostra padronanza tecnica e conoscenze anatomiche (“le membra de’ morti sino all’unghie morte”), quando ricava dal marmo un
corpo morto che pare “in ogni suo membro ben morto”; secondo l’autore del De pictura, infatti, gli arti dei cadaveri dipinti
dovrebbero risultare afflosciati quando “non più possono portare gli offici della vita, cioè movimento e sentimento”.148 Questo
aspetto è rimarcato altresì da Giorgio Vasari nella descrizione della Pietà: “Non si pensi alcuno di bellezza di membra e
d’artificio di corpo vedere uno ignudo tanto ben ricerco di muscoli, vene, nerbi, sopra l’ossatura di quel corpo, né ancora un morto più
simile al morto di quello”.149 In effetti il braccio destro di Gesù pende inerme come un Meleagro e la testa cade all’indietro, ma tutta
la sua figura, invece di essere attorniata di personaggi epici come in tanti sarcofagi classici, è sorretta solo dalla madre. Eppure, nella
restituzione plastica degli eventi drammatici che hanno causato la temporanea morte di Cristo e il lutto di Maria, non riscontriamo eccessivo
realismo ma studiato naturalismo; non c’è documentazione del supplizio ma convincente verità di fede. Il Buonarroti doveva scolpire un
uomo e un dio, il quale non andava compianto secondo i termini di un lutto disperatamente terrestre o dall’eroismo troppo epico. Ad esempio,
come si è già evocato, il lutto espresso nell’immagine classica della morte dell’eroico cacciatore Meleagro, topos figurativo studiato dai
bassorilievi antichi e riutilizzato da molti artisti rinascimentali per impostare il tema della deposizione di Gesù; tra questi citiamo
solo il fiorentino Donatello nella Deposizione in pietra nella basilica del Santo di Padova e Andrea Mantegna in una
famosa incisione dedicata al Compianto su Cristo morto. D’altra parte, a dimostrazione della natura divina del Cristo, la
figura di Michelangelo mantiene anche nel trapasso un’estrema “venustà e gratia”, propria dei vivi sempre secondo l’Alberti150.
Per il Buonarroti la tecnica scultorea voleva essere razionale ed esatta, al fine di rappresentare ragionevolmente la natura umana
del Messia. Ma nel processo creativo doveva subentrare un’intuizione spirituale intesa a immaginare e configurare la divinità di Gesù. Uno
sguardo di natura trascendente ha dunque guidato Michelangelo nell’atto di congiungere alla bellezza corporea un aspetto mistico: ovvero
la penetrazione del divino in un corpo d’uomo bello (programmaticamente quello delle statue antiche, ripetiamo fondamento comparativo
dell’estetica albertiana). L’avvenenza adamantina, che rimane viva oltre il patibolo e che sprigiona dal corpo morto di Gesù, non è
ostacolo a comprendere la natura superiore di quella bellezza. Anzi, questa avvenenza salda e incontaminata del bel nudo era da apprezzare in
quanto sostanza spirituale e alimento di fede. Entrando in chiesa, i fedeli non dovevano cioè farsi irretire dalla piacevolezza fisica
ricreata dal Buonarroti (magari sulla base di esperienze sensibili), o contemplare quel corpo di marmo come se fosse un idolo.
Nell’ammirazione superficiale delle statue degli dèi e nel culto della bellezza carnale (ivi compresa quella dei migliori fra gli umani quali
gli eroi o gli atleti) si annidavano inganni e tentazioni sia per il cristianesimo sia già molti secoli prima per Platone e i suoi seguaci.
Invece il corpo nudo di Gesù, anche se bello al pari dei leggendari Endimione e Meleagro, doveva risultare attraente come l’amato nel
Cantico dei cantici, una sorta di finestra aperta sul Dio invisibile. È probabile che il cardinale Bilhères avesse a mente proprio il commento
al Cantico dei cantici di Origene, dove riguardo alla bellezza si dice: “Perciò bello e avvenente è detto l’amato, e quanto più sarà
osservato con occhi spirituali, tanto più bello e avvenente apparirà: infatti non soltanto appariranno meravigliosi il suo aspetto e la
sua bellezza, ma anche a colui che lo guarda e lo osserva sopravverrà grande bellezza e aspetto nuovo e meraviglioso, secondo quanto dice
l’apostolo che osserva la bellezza della parola di Dio: infatti se anche il nostro uomo esteriore si corrompe quello interiore si rinnova di
giorno in giorno”.151
Oltre allo svolgimento di una forma verosimile, desunta dalla realtà fenomenica, ci sembra che anche secondo Michelangelo colui che possiede la capacità di una contemplazione creativa aggiunga alla natura gli ideali per trascenderla e - attraverso la produzione di un sublime prototipo di bellezza - possa donare ai riguardanti la possibilità di una venerazione autentica del Sommo Artefice.
Forse su suggerimento del cardinale, Michelangelo voleva superare l’estrema distanza storica tra il fedele e il sacrificio di Cristo, trasportando l’osservatore non tanto nel 33 a.D. (cioè nel tempo e nel luogo del calvario), ma in una dimensione di eterna e rinnovata rivelazione. Visione per la quale lo scultore ha dato corpo a una bellezza ideale più completa e più vera di ogni manifestazione terrena. L’argomento sembra ripreso dal Vasari, quando descrive il virtuosismo di Michelangelo nella Pietà: “certo è un miracolo che un sasso, da principio senza forma nessuna, si sia mai ridotto a quella perfezione, che la natura a fatica suol formar nella carne”.153 In questo caso però le parole del Vasari sono piuttosto lontane dall’estetica di Plotino. Il pittore e teorico di Arezzo mirava soprattutto a esaltare l’azione intelligente dello scultore moderno: una personalità ormai apprezzata dagli intenditori, sostenuta dal favore dei ricchi e dei principi, utile alla chiesa del XVI secolo. Una figura non più inferiore ai poeti e ai filosofi, ma altrettanto capace di travalicare i limiti e le resistenze della natura e dei materiali (“il sasso”). Proprio per il Vasari il committente della Pietà rimane nell’ombra assieme alla sua cultura di riferimento. Background che ebbe invece un peso decisivo nelle vicende che tratteggiamo, visto che Jean Bilhères de Lagraulas fu abate della splendida cattedrale di Saint-Denis, tempio reinventato nel XII secolo dall’abate Suger con spirito decisamente neo-plotiniano pure in ambito cristianissimo.
Gli effetti di una contemplazione creativa sembrano ritrovarsi anche nel transfert che cogliamo in essere tra lo scultore e la madre di Dio, ritratta mentre contempla l’incarnazione del divino nel corpo morto del figlio; quasi che Michelangelo unisca e giustifichi la propria creatività generatrice con un percorso di conoscenza mosso da un anelito di bellezza e di intellezione del vero. Per Michelangelo questo amore di bellezza e di conoscenza non è macchiato da idolatria delle forme più esatte, né da desideri illeciti. È un momento di devozione e di sapienza, paragonabile alla illuminata verginità della Madonna. In un sonetto più tardo l’artista scriverà: “Per fido esemplo alla mia vocazione / nel parto mi fu data la bellezza / che d’ambo l’arti m’è lucerna e specchio. / S’altro si pensa, è falsa opinione. / Questo sol l’occhio porta a quella altezza / c’a pingere e scolpir qui m’apparecchio. / S’e’ giudizi temerari e sciocchi / al senso tiran la beltà, che muove / e porta al cielo ogni intelletto sano, / dal mortale al divin non vanno gli occhi / infermi, e fermi sempre pur là d’ove / ascender senza grazia è pensier vano”.154