PARTE PRIMA - BREVE STORIA DELLA DANZA DALL'ANTICHITÀ ALL'INIZIO DEL XIX SECOLO CAPITOLO 5 IL CINQUECENTO 5.1 Il Rinascimento La cultura del Rinascimento, con la riscoperta dei classici, aveva reintrodotto nella società uno spirito pagano. La cultura del Rinascimento non era vincolata a rigidi dogmi teologico-metafisici, ma libera di spaziare dall’arte alla filosofia, dalla medicina all’astronomia, dalla morale alla politica. L’arte, completamente svincolata dalla morale, divenne un modo per comunicare con la pura bellezza della forma. Anche la politica si rese indipendente dalla religione: il sovrano non regnava più per diritto divino, ma grazie alle proprie virtù e alla forza con cui imponeva il proprio dominio. Il fervore e l’intensa attività di pensiero del Rinascimento sono alla base anche di numerose scoperte scientifiche e invenzioni, la più importante delle quali è sicuramente quella della stampa per la ricaduta che ebbe sulla diffusione della cultura. Fino al XIV secolo i libri erano scritti su pergamena dagli amanuensi, in prevalenza monaci, e i lunghi tempi di realizzazione li rendevano un prodotto raro e accessibile a pochi. Ma verso la metà del secolo l’invenzione della stampa a caratteri mobili del tedesco Giovanni Gutenberg rivoluzionò la trasmissione del sapere in Europa. Nel 1456 fu stampato il primo libro, la Bibbia. Nei cinquant’anni successivi in Europa furono prodotte centinaia di migliaia di libri, forse più di quanti ne avessero trascritti tutti gli amanuensi nel millennio precedente. Notevoli miglioramenti si ebbero anche nella qualità della vita; nelle città sorsero maestosi palazzi, si diede notevole impulso alla costruzione di strade più ampie, fontane, giardini, musei. Nelle residenze dei principi trovarono ampia diffusione le arti, la musica, la danza, la poesia, il teatro. Tra le classi più elevate l’abbigliamento sfarzoso, il lusso delle abitazioni la conversazione colta e galante, la magnificenza delle feste divennero un segno distintivo dei detentori del potere. 5.2 L’uso politico della festa Nella seconda metà del XVI secolo l’Italia visse un periodo di decadenza, sia economica, per la diminuita importanza del Mediterraneo nei commerci, sia culturale, per il pesante clima che si era creato con la Controriforma e per l’egemonia spagnola, che si instaurò in modo diretto nel Ducato di Milano, nello Stato dei Presidi e nell’Italia meridionale, e in modo indiretto su quasi tutti gli stati indipendenti. La Chiesa, dopo il Concilio di Trento, nel tentativo di riaffermare i valori cattolici, cercava di colpire la fantasia delle masse con il fasto delle cerimonie, con processioni miranti a ricevere determinate grazie, con le devozioni contro le malattie, insomma con tutta una serie di pratiche che erano già state contestate non solo dai riformatori protestanti, ma anche dagli umanisti cristiani. Verso la metà del secolo si affermò l’ordine dei Gesuiti, che si di- stinguevano per l’attivismo con cui si occupavano dell’educazione delle coscienze. Nei loro numerosi collegi venivano istruiti i giovani provenienti dalla classe dirigente, nella convinzione che, agendo sulla loro formazione, si sarebbe potuto influire indirettamente sull’intera società. Per realizzare questo intento i Gesuiti si resero conto della necessità di cambiare radicalmente l’atteggiamento del cattolicesimo nei confronti della cultura rinascimentale, della quale si dovevano rifiutare le tendenze laiche e ribelli, ma si potevano accettare lo stile e la forma e talvolta persino gli interessi mondani. Come nel XV secolo, anche nel XVI le corti e le repubbliche in cui era frazionata la penisola facevano ampio ricorso a cortei, banchetti, ingressi trionfali, tornei, giostre, fuochi d’artificio e naturalmente esibizioni coreiche, al fine di legittimare il loro potere e di dar sfoggio della propria magnificenza negli allestimenti. La rivalità che si era creata tra i vari centri di potere finì per imprimere un ulteriore incremento all’organizzazione di feste pubbliche, laiche o ecclesiastiche che fossero, che venivano utilizzate dai potenti a scopo di propaganda. Agli occhi degli ospiti stranieri la festa doveva apparire come il microcosmo del più vasto macrocosmo dello stato, perfettamente organizzato. Nei confronti del popolo la festa aveva una funzione molto simile a quella che nell’antica Roma avevano gli spettacoli del circo e le lotte dei gladiatori, uno strumento di potere per mascherare e soprattutto per distrarre l’attenzione dagli scompensi sociali. 5.3 Le danze del Cinquecento Nel XVI secolo sorse una grande varietà di danze, molte delle quali non erano che una continua evoluzione del popolare branle e della bassa danza e altre che richiedevano un certo virtuosismo come la gagliarda, i cinque passi, il tordjon, la volta. Alcuni balli erano costruiti matematicamente, per fare appello alla ragione e alla scienza, in linea con la nuova percezione dell’uomo e del mondo. Le figure tracciate sul pavimento dai danzatori (triangoli, spirali, anelli di incastro) avevano precisi significati, oggi purtroppo perduti, in modo che sottili messaggi potessero essere veicolati attraverso gesti e modelli. Anche le scoperte geografiche influenzarono i ritmi dell’arte coreutica. Dalle isole Canarie prese il nome una danza che nelle continue battute dei piedi ricordava il flamenco spagnolo. Il arrivò nella penisola iberica probabilmente con gli schiavi provenienti dalle isole Canarie. Il navigatore genovese Nicoloso da Recco, che dal Portogallo raggiunse l’arcipelago nel 1341, nel suo resoconto di viaggio , accenna a una danza di corteggiamento di queste popolazioni che assomigliava molto a quella eseguita dai contadini francesi, anche nella disposizione dei danzatori che si fronteggiavano e si avvicinavano tra loro per poi allontanarsi con saltelli e battute dei piedi. canario De Canaria et insulis reliquis ultra Ispaniam in Occeano noviter repertis 5.3.1 Grazia, leggiadria e sprezzatura Come nel XV secolo, anche in quello successivo i caratteri distintivi dell’esecuzione coreutica sono costituiti dalla dignità e dalla misura. Molto esplicito in questo senso il monito di Baldassarre Castiglione il quale, nel (1528), proibisce al perfetto uomo di corte di farsi sorprendere a partecipare alle feste popolari e di provarsi con i villani nel ballo. Alla corte di Urbino del 1507, nella quale Castiglione ambienta la sua opera, i nobiluomini partecipano in incognito ai balli del popolo, dove la danza è spesso sfrenata e sempre “alta”, ossia saltata, e veloce. Ma a corte la devono esercitare , evitando i quali, se si apprezzano in un maestro di ballo, non si addicono però a un gentiluomo. Libro del Cortigiano “con una certa dignità, temperata però con leggiadra ed aerosa dolcezza di movimenti” “quelle prestezze de’ piedi e duplicati ribattimenti” Quando una nobildonna danza, secondo Castiglione, non dovrebbe fare movimenti “troppo energici e violenti”, ma muoversi con grazioso e dignità. La dama di corte, oltre ad avere una buona conoscenza di lettere, di musica, di pittura, deve saper ballare e saper intrattenere gli altri con «giochi, risate, battute, e le altre cose che vediamo in corso a corte ogni giorno...». Castiglione inoltre incoraggia quelli che vivono a corte «... a praticare in tutte le cose la , cioè ad agire con una certa nonchalance, in modo da nascondere tutta l’arte e fare tutto ciò che è fatto o detto sembra essere senza sforzo...». Un concetto simile si ritrova nel il trattato di buone maniere scritto da Giovanni della Casa verso la metà del secolo, in cui si raccomanda “grazia e leggiadria” nel comportamento in ogni occasione sociale. sprezzatura Galateo overo de’ costumi, Nonostante le raccomandazioni dei teorici delle buone maniere, le danze del Cinquecento si differenziano, tuttavia, da quelle del secolo precedente in cui predominavano grazia e leggerezza. La danza più in voga era la gagliarda, saltellata e ricca di complesse variazioni, che richiedeva notevole destrezza ai ballerini. Nasce in questo periodo la , prototipo delle danze a coppia chiusa, in cui dama e cavaliere sono uno fronte all’altro e in cui il contatto fisico tra i due partner, abbastanza inusuale fino a quel momento, spesso fa gridare allo scandalo. La volta, infatti, è una danza a coppia chiusa, in cui non si cambia mai partner. L’uomo con il braccio sinistro prende la dama sul suo fianco destro e appoggia la mano destra sotto alla stecca del busto di lei. La dama, a sua volta, appoggia la mano destra sulla spalla del cavaliere, tenendo con l’altra mano la gonna, per evitare che si sollevi eccessivamente. volta 5.3.2 Cortesie, creanze e regole di portamento Un aspetto significativo di qualunque ballo di sala erano le cosiddette “creanze”, cioè i movimenti iniziali, in primo luogo la riverenza. Nell’esecuzione della riverenza una persona doveva dimostrare la distinzione del proprio comportamento sociale. La riverenza costituisce una parte fondamentale di tutte le danze del XVI e del XVII secolo e la sua esecuzione talvolta veniva considerata più importante della precisione dei passi e dei movimenti. Nella riverenza, nel momento in cui il corpo si piega, il capo rimane eretto. Solo nei balli a corte era d’obbligo chinarlo leggermente. La riverenza delle dame nel XVI secolo era profonda e piena di affettata gravità, anche a causa degli abiti pesanti, di foggia ingombrante e lunghi fino a terra, in quanto non si dovevano in alcun modo mostrare le gambe. Per questo motivo la tecnica della danza di sala del XVI secolo non prendeva in considerazione in genere i movimenti delle gambe che invece saranno messi in evidenza nel secolo successivo. Solo il superamento delle regole dell’etichetta, la possibilità di muoversi liberamente con il partner e di danzare per il piacere di farlo potevano portare a una evoluzione del ruolo femminile nella danza di sala. Fu questa la ragione per cui le danze lente, come la bassa danza, iniziarono a passare di moda. L’abbigliamento delle signore, già di per sé piuttosto ingombrante, non prevedeva accessori se non ventagli e fazzoletti che in genere trovavano posto nella manica esterna dell’abito. Il ventaglio talvolta veniva portato appeso a una catena che arrivava fino all’altezza del ginocchio. La riverenza maschile consisteva nel togliersi il copricapo e nell’inclinare il corpo senza arrivare a una flessione completa. Le dita della mano, ad eccezione del pollice, erano nascoste tra le pieghe dell’abito e conservavano tale posizione per tutta la durata della danza. Un aspetto da non trascurare, per comprendere l’importanza dei movimenti iniziali, è l’abbigliamento di quell’epoca: nelle occasioni sociali – pranzi, passeggiate, conversazioni di affari o intrattenimenti danzanti – i gentiluomini indossavano cappello, mantello e spada. Nel XVII secolo il mantello cadde in disuso, ma cappello e spada, e il ventaglio per le donne, rimasero ancora accessori immancabili nell’abbigliamento quotidiano. Indossare il cappello durante un ballo richiedeva una certa perizia nel metterlo e toglierlo rapidamente con naturalezza, coordinando i movimenti delle mani con le posizioni e i tempi della danza. Dopo la riverenza il cavaliere poteva tenere il cappello con la mano sinistra e danzare a testa scoperta, se non avesse voluto indossarlo, altrimenti avrebbe dovuto calzarlo con un movimento circolare della mano evitando di coprire il viso. Nel trattato Fabrizio Caroso raccomanda di tenere il copricapo in modo che sia visibile solo la parte esterna, evitando di mostrare le tracce di sudore e di usura di quella interna. Ancora più limitante nei movimenti era la spada, che veniva custodita nel fodero e pendeva quasi all’altezza dell’anca sinistra. Nella parte del suo trattato in cui tratta della gagliarda, dato il carattere particolarmente acrobatico dei passi, Cesare Negri consiglia di non portare la spada quando si partecipa a una festa da ballo. Il Ballarino 5.3.3 Pavana e gagliarda Nel XVI secolo le danze divennero più complesse e comparvero balli veloci e virtuosistici come si può evincere dagli scritti dei trattatisti che, nel corso del secolo e fino a quello successivo, classificarono tutte le coreografie cinquecentesche. La musica, intanto, si era arricchita del suono di nuovi strumenti, di elementi esotici, del gioco di contrasto tra ritmi lenti e veloci, mentre le figure diventavano vere performance di abilità e di coordinazione motoria. Nella gagliarda gli uomini davano dimostrazione di prestanza fisica con salti quasi acrobatici, nella volta sollevavano le dame tenendole sospese con un ginocchio. L’agilità che le danze cinquecentesche richiedevano era, tuttavia, in contrasto con l’evoluzione della moda, la quale imponeva ai nobili abiti sempre più ingombranti, realizzati con pesanti broccati e spesso adorni di pietre preziose. La pavana comparve all’inizio del XVI secolo come danza cerimoniale aristocratica. La prima musica per pavana si incontra nel Libro quarto della raccolta di Joan Ambrosio Dalza , pubblicata a Venezia nel 1508 dall’editore Ottaviano Petrucci. L’origine del nome pavana è incerta: secondo alcuni deriva da padovana, in quanto la danza sarebbe stata eseguita per la prima volta a Padova e questo farebbe pensare che sia nata in Italia. Altri affermano, invece, facendo riferimento alla tecnica di esecuzione del ballo, fanno derivare il nome dal pavone, trattandosi di una danza in cui gli esecutori si “pavoneggiano”. Infatti, il cavaliere, con portamento superbo e passo solenne, mette il braccio destro, ad arco, sotto la cappa, poggiando la mano sinistra sulla impugnatura della spada che porta sul lato sinistro, con il gomito verso l’esterno. In tal modo provoca un ampio sollevamento indietro del mantello, disegnando una figura simile alla ruota del pavone. Per il suo carattere maestoso la pavana veniva eseguita spesso come sfilata d’ingresso degli invitati nei saloni in cui si teneva la festa. Nelle feste di corte un rigido cerimoniale basato sul rango dettava l’ordine di ingresso nella sala da ballo. Thoinot Arbeau sostiene a proposito della pavana che sia originaria della Spagna, da dove sarebbe stata importata in Francia durante il regno di Enrico III. Poiché fu Caterina de Medici a diffondere presso la corte dei Valois l’arte della danza, è più probabile una provenienza italiana della pavana, anche se la prima nota scritta che ne faccia riferimento risale al 1508, un periodo dunque molto precedente all’arrivo di Caterina in Francia. Intabulatura de Lauto Alla corte francese le danze si aprivano con l’esecuzione della pavana del re o della regina, poi ballava il delfino e seguivano gli altri. Le coppie danzanti si portavano insieme al centro della sala, si inchinavano al re e si disponevano di fronte. Il cavaliere prendeva con la mano destra la sinistra della dama all’altezza delle dita, sollevando il palmo fino quasi alle spalle e rilasciando il braccio. La dama, rivolta verso il fianco del cavaliere, con la mano destra e il braccio leggermente piegato manteneva l’abito. I cavalieri iniziavano la danza con il piede sinistro, le dame con il destro. Per tutta la durata della pavana si eseguiva solo un tipo di passo che poteva essere semplice o doppio: si ripeteva in avanti, all’indietro o lateralmente sempre piuttosto scivolato e molto contenuto soprattutto per le donne, a causa degli abiti dell’epoca, che non rendevano certo agevole il movimento. Nei manuali dei due principali maestri di danza italiani, Fabritio Caroso e Cesare Negri, appare anche una variante della pavana, la pavaniglia, di provenienza spagnola: in Spagna era chiamata italiana, in Francia . Altra variante della pavana era il passemezzo, citata per la prima volta nel 1546 nell’ di Antonio Rotta. Chiamata in italiano anche e in francese passemeze, ha ritmo binario, ma più rapido della pavana ed è seguita abitualmente dalla gagliarda. pavanilla pavane d’Espagne Intabulatura per liuto pass’e mezzo La gagliarda veniva eseguita, in genere, come chiusura della pavana, per darle un finale movimentato, senza passi scivolati, ma saltati. Consisteva in una serie di salti e lanci della gamba che richiedevano notevole agilità e comprendeva movimenti in tutte le direzioni (avanti, indietro, di lato, in diagonale). Era l’unica danza che gli uomini ballavano a capo scoperto. Nei primi tempi aveva addirittura inglobato la pantomima, finalizzata al corteggiamento. Anche alcune critiche formulate nei confronti di questo ballo, da parte di osservatori e commentatori dell’epoca, sono utili per capirne meglio la natura e la struttura: il carattere tumultuoso del ballo spesso, creava disordine e spingeva le fanciulle a scatenarsi più del necessario. Per tutto il Cinquecento pavana e corrente furono le danze più praticate nelle feste e solo la comparsa del minuetto ne segnerà il tramonto. 5.4 Maestri e inventori di balli Nel Cinquecento il maestro di danza era ancora l’arbitro incontrastato del cerimoniale di corte e continuava a rivestire anche le mansioni di maestro di etichetta o di buone maniere, ma l’arte del ballo andava avviandosi alla professionalizzazione e alla rappresentazione teatrale spettacolare e acquistava una funzione sempre più “pubblica”, sottolineando e codificando una trama di rapporti e di legami sociali, sia all’interno della corte, sia tra i vari potenti d’Italia. Verso la metà del secolo nacque a Milano la prima scuola per maestri di ballo e ballerini: quella di Pompeo Diobono, nella quale si formò un’intera generazione di danzatori e “inventori” di balli, che diffusero nelle corti europee lo stile italiano. Nel 1554 Diobono fu invitato a Parigi dal maresciallo de Brissac, governatore francese in Piemonte ed ebbe dal re Enrico II l’incarico di occuparsi dell’educazione fisica e sociale del secondogenito Carlo, duca d’Orléans. Dopo la morte del sovrano, scomparso nel 1559 a causa di un incidente durante un torneo cavalleresco, Diobono rimase alla corte della reggente, Caterina de’ Medici, mantenendo l’incarico di maestro di danza per circa trent’anni. Due grandi maestri di ballo dominano la scena nel secolo XVI, uno in area laziale, l’altro a Milano: Fabrizio Caroso e Cesare Negri. 5.5 Fabrizio Caroso Fabrizio Caroso (1527-1605), originario di Sermoneta, oggi in provincia di Latina, visse a Roma dove esercitò la professione di ballerino, maestro di ballo, compositore e teorico della danza. La sua opera , stampata a Venezia nel 1581, fu ristampata a Roma nel 1600 con il titolo mutato in . e la precisazione Il Ballarino Nobiltà di dame Libro altra volta chiamato “Il Ballarino” “Raccolta di vari balli fatti in occorrenze di nozze e festini da nobili cavalieri e dame di diverse nationi”. La prima parte del è interamente dedicata ai passi, che vengono dapprima elencati in tutte le loro possibili varianti, quindi descritti e codificati, specificando posizione e movimento dei piedi, nonché postura del corpo. Le danze si aprono e si chiudono con una che può durare dai quattro agli otto tempi ( ). Ballarino riverenza riverenza grave Nei balli del Cinquecento, rispetto alle danze del secolo precedente, la varietà dei passi e delle posizioni è molto più ampia: al passo semplice e al passo doppio si aggiungono , , , , , e tanti altri oltre a numerosissime “mutanze”, cioè variazioni virtuosistiche con cui i danzatori potevano arricchire le pro- prie performance. spezzato seguito fioretto trabucco trango continenza I balli descritti nei due trattati, dai titoli cortigianeschi ( ecc. ), sono dedicati ciascuno a regine e nobildonne di Francia, Spagna e Italia, con l’intestazione “in lode” delle medesime insieme a un sonetto, un madrigale o una villanella che ne decanta le virtù. Alta Regina, Ardente Sole, Fulgente Stella, Gloria d’Amore, Chiara Stella, Leggiadra Ninfa, Gli autori dei trattati, infatti, erano soliti dedicare l’intero volume a una personalità illustre e ciascuna delle danze contenute nel trattato a una diversa dama da cui la danza spesso prendeva il nome: per esempio l’ era dedicata alla moglie del governatore di Milano Anna de Mendoza, mentre l’ era una pavaniglia dedicata alla principessa di Venezia, Morosina Morosini Grimani. Nell’edizione del 1581 era dedicato dall’autore alla Granduchessa di Toscana Bianca Capello de’ Medici; l’edizione del 1600 ai duchi di Parma e Piacenza Ranuccio e Margherita Farnese. Alta Mendoza Amorosina Grimana Il Ballarino Nella seconda parte del trattato vengono invece descritte le coreografie. In alcuni casi è chiaramente riportato l’autore, in altri è annotato “autore incerto” oppure non si nomina del tutto; questo fa pensare si tratti di danze in uso da tempo, delle quali si era persa ormai memoria di chi le avesse coreografate e quando. Esse possono quindi fornire utili indicazioni per la ricostruzione delle coreografie dei periodi precedenti. Nonostante il testo sia molto preciso nella descrizione dei movimenti, a volte restano dei dettagli non chiari, e perciò oggi si assiste a varie interpretazioni della stessa coreografia: in un solo caso, infatti, è riportato il disegno geometrico del percorso spaziale dei danzatori. Questo tipo di ambiguità si ritrova a volte anche nella descrizione dei passi, perché l’autore dà per scontati alcuni dettagli che probabilmente all’epoca erano noti a tutti. Oltre alle descrizioni delle danze, dei vari passi e delle regole, i trattati sono corredati anche di illustrazioni, realizzate mediante incisioni in rame ( ), che raffigurano la coppia in una posizione della danza, quasi sempre quella iniziale. Le illustrazioni avevano più la funzione di impreziosire il testo che non quella di illustrare le posizioni della danza, poiché nonostante i rimandi della trattazione verbale al « », non erano sufficienti a spiegare aspetti poco chiari della descrizione verbale. Le incisioni presentano, tuttavia, uno straordinario valore documentale per quanto riguarda gli abiti e gli accessori indossati dai nobili in occasione delle feste da ballo. Non esistono nei trattati disegni che raffigurino lo schema della coreografia, con un’unica eccezione: il , ballo per tre cavalieri e tre dame , contenuto nel trattato di Caroso del 1600. vaghe et bellissime figure in rame presente dissegno Contrapasso nuovo «fatto con vera Regola, perfetta Theorica e Mathematica» Un’illustrazione, che ricorda una corolla circondata da sei petali, con l’intestazione rappresentava il percorso circolare dell’«intrecciata» o «passeggio incatenato da farsi in ruota», una catena che veniva eseguiva partendo dalla posizione in circolo di dame e cavalieri alternati. «Il contrapasso fatto con vera mathematica sopra i versi d’Ovidio» L’incisione rappresenta l’intreccio di due linee chiuse ondulate ognuna con tre onde concave e tre onde convesse; nei sei punti d’incontro le scritte «Dma» e «Cro» alternate indicavano le posizioni delle tre dame e dei tre cavalieri prima di iniziare l’intrecciata. Su una delle linee ondulate si legge «questa è la linea della Dama» e sull’altra «questa è la linea del Cavaliere». Le musiche che compaiono in questo lavoro, tutte composte dall’autore, si presentano raffinate ed eleganti nella veste formale, mentre nel tessuto conservano la semplicità propria delle musiche per danza. L’elenco dei passi è quasi raddoppiato nel numero, elemento questo che permette di datare con precisione alcuni passi e di escluderli nella ricostruzione ipotetica di danze più antiche. 5.6 Cesare Negri Pressoché contemporaneo di Caroso fu il milanese Cesare Negri, detto “il Trombone”, al quale si deve un altro importante volume sulla danza intitolato , edito nel 1602. La dedica de , nelle edizioni del 1602 e del 1604, è indirizzata a Filippo III di Spagna. Le Gratie d’Amore Le Gratie d’Amore Di Negri, ballerino e maestro di danza, non si conoscono esatte notizie biografiche. Nacque molto probabilmente a Milano intorno al 1536 e fu allievo di Pompeo Diobono, del quale rilevò la scuola milanese quando questi si trasferì in Francia, ma essendo molto richiesto come maestro e coreografo, si spostò spesso dalla città lombarda, che a quel tempo era diventata una provincia spagnola. I riferimenti che si possono ricavare dal secondo capitolo della sua opera fanno pensare che egli sia sempre stato al servizio dei vari dignitari spagnoli che si erano succeduti al governo di Milano nella seconda metà del Cinquecento e che i suoi numerosi viaggi, accompagnati da esibizioni in varie città italiane, siano sempre da ricollegare agli spostamenti del signore che serviva in quel momento. La sua presenza è accertata a Malta, a Genova, a Cremona e poi in Francia. Doveva godere di una certa fama anche all’estero perché il secondo e il terzo libro della sua opera furono tradotti e pubblicati in Spagna. Nel 1574, a Milano, gli furono affidate le coreografie della festa in onore di don Giovanni d’Austria, fratellastro di Filippo II di Spagna e vincitore della battaglia di Lepanto contro i Turchi. L’opera di Negri costituisce una delle fonti più importanti di informazioni sulla danza tardo-rinascimentale. Il trattato contiene descrizioni di passi, corredate di informazioni sulla durata e 43 coreografie complete di musica in notazione personale e intavolatura per liuto. Le musiche che compaiono nelle sono tutte dell’autore; alcune furono da lui trascritte per “una parte di suono e intavolatura di liuto” da composizioni allora in voga di autori della seconda metà del XVI secolo come, ad esempio, l’aria a quattro voci di Orazio Vecchi, noto madrigalista della fine del Cinquecento. Gratie d’Amore So ben mi chi ha buon tempo 5.7 Altri trattatisti Uno dei primi trattati sulla danza del XVI secolo fu scritto da Antoine Arena (1500-1563), poeta e giurista francese, con il titolo (Ai suoi compagni studenti). L’opera, composta in versi in latino maccheronico, rimaneggiata più volte tra il 1520 e il 1530, descrive oltre alle basse danze, la pavana, la gagliarda, il tourdion e la corrente. Ad suos compagnones studiantes Più vicino all’opera di Negri che non a quella di Caroso, è il Mastro del ballo, del perugino Ercole Santucci, un manoscritto datato 1614 di scoperta piuttosto recente, diviso in “Tre Trattati” con il quale ogni scolaro potrà facilmente imparare “ogni sorte di Ballo, senza altra schola”. Altra figura significativa del tardo Cinquecento è Livio Lupi da Caravaggio, autore di un trattato dal titolo , , pubblicato a Palermo in due edizioni successive: la prima, nel 1600 e nel 1607. Mutanze di Gagliarda Tordiglione Passo e mezzo, Canari e Passeggi Verso la fine del secolo, quando la gagliarda era ormai il ballo più praticato, si diffusero testi di variazioni di gagliarda, come quello di Prospero Luti da Sulmona, pubblicato nel 1589. Della gagliarda tratta anche il testo di Lutio Compasso, pubblicato a Firenze nel 1611, intitolato Ballo Della Gagliarda Opera Nvova e Dilettevole composto da Lutio Compasso Romano sopra le mutanzie della Gagliarda non più messe in luce.