PAESAGGI CROMATICI Testo curatoriale di Bianca Basile comincia a piovere. Gocce perplesse, pioniere, tamburellano sulla fitta vegetazione che fino a poco fa brillava di luce dorata. Quasi sentivo mimetizzarmi in quel giallo, assorbita dalla sensazione del calore sulla pelle, tra i fiori viola che quasi coprono la panchina su cui ho messo radici da qualche minuto; forse un’ora. Altre gocce precipitano sorde sul breve sentiero che mi separa dal boschetto. Indecise, se chiamare o meno le compagne, riflettono un po’ quello che era il mio umore, prima di uscire di casa. D’improvviso, che avevo incontrato, anni prima, in un’ansa fitta, profonda del boschetto; ombrosi all’occhio umano per via della loro posizione. Un’urgenza impellente di raggiungerli monta e rimbomba, come il temporale che si prepara. Inoltratami nel bosco, li vedo. Si stagliano, riservati, in una radura che si apre su un’ombra cromatica, accesa dal giallo e dal viola dei petali. Mi sdraio. L’umido penetra attraverso il tessuto. Mi porta a pensare alle della mia vita. La prima la identifico con tutto il , nella sua frenesia luminosa, agitata da un ritmo denso e strascicato al tempo stesso, con cui la terra germoglia e fiorisce, in una calma esplosione. L’immagine della mia isola, più intima e personale, è fortemente connotata dal . Anche quando l’acqua non si scorge, aria e luce sono salmastre; il tempo, e non solo il meteo, è salmastro. I ritmi civili delle città contrastano con quello dell’isola, che segue le maree, il vento e l’umore delle onde. Solo quando la nostra Muntagna erutta, ce ne rendiamo conto. Quando , le nuvole sono nere di cenere e la pioggia si fa grumosa. Tutto diventa plumbeo, anche l’atmosfera, quasi a dare maggiore risalto alla lingua di lava che discenderà maestosa. Si sta facendo buio. Mi incammino su per la collina, quasi di corsa, per scaldarmi. Mi incalza il tramonto. Con i suoi ultimi arpioni di luce, mi invita ad affrontare la salita con passo veloce e per scalare e riuscire a vedere il suo tuorlo rosso affondare nel mare. Con gli occhi chiusi, sopra le palpebre, tamburella l’alba, ma c’è dell’altro. Mi stropiccio gli occhi e nel giallo si insinua il suo complementare. Sbatto le palpebre e mi affaccio alla finestra. Filamenti di luce violetta colano sul tronco dell’Ilice di Carrinu. Serpenti incandescenti ne disegnano il profilo, al limite dello spettro luminoso; l’alba bruciante accende il paesaggio, incendiandolo per contrasto, fusto per fusto. Mentre siedo al sole mi ricordo dei fiori terre d’isola sud mare il cielo è plurale mani libere Era sogno o foresta?