CAPITOLO VIII

Una medicina a misura di bambini: omeopatia e floriterapia

“Se un medicamento dev’essere qualcosa che veramente porta guarigione, deve trasmettere alla persona l’informazione mancante.”

T. Dethlefsen

Da bravo Acquario, sono sempre stata una ribelle. Così, fin dall’inizio della mia professione di pediatra, ho cercato soluzioni alternative alla medicina ufficiale che mi era stata insegnata all’Università. Perché mi ci sentivo stretta, non mi soddisfaceva, non corrispondeva al mio sentire più profondo.


Già da quando frequentavo il reparto di Neonatologia mi facevo domande scomode: perché quei piccoli esseri lasciati nudi dopo la visita del primario, col codazzo di specializzandi al seguito, piangevano disperati e si calmavano solo quando io, inosservata, andavo silenziosamente a rivestirli uno per uno? Perché le loro mamme non potevano restare lì con loro se non per pochi attimi? Perché creature così fragili e delicate venivano inondate di luci e rumori così forti?


E poi, durante il tirocinio presso ambulatori pediatrici, mi chiedevo come mai le visite si riducessero a una veloce auscultazione del piccolo paziente, a una misurazione dei parametri di crescita, quasi che quell’esserino fosse un’automobile da sottoporre a un tagliando… Ma chi era quel bambino che si presentava davanti a noi? Qual era la sua storia? Qual era il senso del suo star male?


E, in caso di malattia respiratoria, era sempre la stessa identica prescrizione: antibiotico, cortisone e antinfiammatorio, tutti rimedi sintomatici, che coprivano la falla, proprio come una mano di bianco sulla chiazza di umido sul muro, senza riparare la perdita d’acqua. E con tutti gli effetti collaterali che queste sostanze provocano nell’organismo umano, in primis l’alterazione del microbiota intestinale.


Per carità, sono farmaci utili, anzi indispensabili in certi casi, in grado di salvare vite umane, ma vanno usati con cautela, solo quando strettamente necessari e non per ogni banale infezione, perlopiù di origine virale.


Poi un giorno, grazie a un libro trovato “per caso” in un mercatino estivo, mi avvicinai all’omeopatia. Fu una scoperta rivoluzionaria: quella visione era anche la mia! L’approccio omeopatico infatti prevede una cura specifica non per il sintomo ma per la persona che ne è portatrice: non esiste per esempio un unico rimedio per la febbre, ma ce ne sono tanti, a seconda del tipo di caratteristiche e di reazione che quel bambino ha di fronte al rialzo di temperatura.


Così per una febbre a 39° che insorge di notte all’improvviso, magari dopo un colpo di freddo o una paura, in un bambino agitato e con frequenza cardiaca accelerata, serve l’Aconitum. Se invece il bambino è prostrato e sonnolento, ha mal di testa e mal di gola, può essergli d’aiuto Belladonna, oppure Gelsemium se c’è stata ansia da anticipazione o uno spavento.


I rimedi omeopatici sono migliaia e la loro scelta non è di certo facile: occorre una buona capacità di osservazione per individuare quelli giusti e adatti al caso, ma quando li si trova l’effetto è sbalorditivo… Più volte, soprattutto con i miei figli, ho gridato al miracolo! Se non l’avessi visto con i miei occhi, non avrei creduto che fossero sufficienti tre granuli per far passare nel giro di mezz’ora conati di vomito incessanti e inarrestabili a un bambino che mi pregava di portarlo in ospedale. “Mamma, sono guarito!” mi disse quella volta Luis e si sedette a tavola come se nulla fosse successo prima.


Allo stesso modo Bryonia salvò l’esame di maturità della mia primogenita: a letto con febbre, mal di testa e dolori vari, due giorni prima della grande prova. Ricordo che non riuscii a non preoccuparmi, ma bastarono poche palline magiche per ritrovarla, in capo a un’ora, in piedi in camera sua a passare con noncuranza l’aspirapolvere…


Con Apis risolvetti un fastidioso eczema di Noah che metteva la sua manina in freezer per sentir sollievo: la modalità del miglioramento del sintomo fu in quel caso la guida al giusto rimedio. Il giorno dopo della dermatite non c’era più traccia alcuna.


Ma il risultato più grande in assoluto l’ho sempre avuto con Stramonium: non solo ha risolto il caso del mio secondogenito ma anche quello di tanti bambini come lui, che da un giorno all’altro, per uno spavento, sono diventati irriconoscibili agli occhi dei loro genitori. Impauriti, violenti, inavvicinabili, come “indemoniati”, queste creature prima solari, affettuose e sorridenti diventano una fonte di grande sofferenza e di dolore per se stesse e per tutti coloro che stanno intorno a loro. Poi con qualche dose alla giusta potenza di questo rimedio vegetale ecco il miracolo: il diavoletto diventa un agnellino, le paure scompaiono e con esse anche l’atteggiamento aggressivo.


Non sempre però i risultati sono così brillanti: come ho già detto, l’omeopatia è un’arte difficile e ci vorrebbe una vita intera per imparare a maneggiarla in modo ottimale. Ecco perché a volte, per fretta e facilità, si ricorre a prodotti “complessi”, ad ampio spettro, che non rispettano più le regole dell’unicismo (cioè la somministrazione del rimedio unico, del simillimum, come raccomanda ogni scuola omeopatica degna di questo nome).


Questa modalità ha creato oggi un grande fraintendimento: troppo spesso si usa l’omeopatia come un’alternativa alla medicina ufficiale ma con le stesse identiche modalità. Quante volte mi sono sentita chiedere da mamme in preda all’ansia “Mio figlio ha la tosse, che rimedio gli do?” oppure “Mi può indicare un rimedio omeopatico per il raffreddore?”. E quante volte ho dovuto spiegare che non esiste “il” rimedio per la tosse o il raffreddore ma ce ne sono tanti diversi a seconda delle caratteristiche di quella tosse o quel raffreddore o di quel bambino che ne è portatore.


Ciò che bisognerebbe fare è capire qual è il senso del malessere e trovare il rimedio che ne rappresenta lo spirito e che fornisce, in forma energetica, l’informazione che serve al corpo per guarire.


Purtroppo però c’è sempre più la richiesta di ricette miracolose che guariscano subito da ogni male, che facciano passare alla velocità della luce ogni minimo disturbo o malattia. Perché oggi noi occidentali viviamo in una società che non accetta più il dolore: gli adolescenti si rimpinzano di antidolorifici ad ogni piccolo sintomo, così come da lattanti venivano imbottiti, dai pediatri e dai genitori consenzienti, di farmaci chimici per ogni tosse o rialzo febbrile.


Invece a volte per guarire occorre tempo. E ci vuole anche riposo, calore fisico ed umano.


Le malattie da raffreddamento, per esempio, quelle invernali, governate dall’energia di Saturno, ci obbligano a letto, invitandoci a una pausa, per prenderci cura di noi e recuperare le energie disperse. Ma oggi nessuno ha più tempo per tutto ciò e si preferisce usare la tachipirina per stoppare il sintomo e poter riprendere il lavoro o rimandare subito il bambino al nido o alla materna.


Allo stesso modo, gli attacchi di panico, peraltro sempre più frequenti in età sempre più precoci, vengono stroncati da ansiolitici e tranquillanti che sopprimono forse il malessere ma di certo non ne estirpano la causa.

Le mamme oggi sono sempre più ansiose: vanno in crisi per una semplice tosse o un raffreddore del loro bambino e si allarmano quando il termometro segna 37°…


Una volta (penso alla generazione di mia madre) non ci si sarebbe mai sognati di chiamare un pediatra per malesseri così banali, che spesso hanno solo bisogno di un po’ di riposo al caldo e qualche coccola in più.


Oggigiorno invece i genitori sono sicuramente più attenti alle esigenze dei loro figli, ma anche più fragili, e tendono a delegare ogni minima difficoltà ai cosiddetti “esperti”.


Ho visto poi mamme bravissime e papà tenerissimi, che hanno cresciuto i loro bambini “ad alto contatto” e con molto amore, essere pieni di sensi di colpa del tutto immotivati.


A volte ciò che chiedono al pediatra è solo un po’ di sostegno e di consigli educativi.


Ecco perché sono sempre più convinta che sensibilizzare i genitori sia un compito prioritario per chi si dedica alla cura dei bambini. A volte questi ultimi non hanno proprio nulla che non va, e allora in questi casi faccio la battuta ai piccoli in visita: “Ah, sei venuto a portare mamma e papà…!”


Ho compreso infatti, in tanti anni di pratica, che per curare efficacemente un bambino occorre prendersi cura prima di tutto dei suoi genitori.