APPENDICE

Stili educativi:
l’importanza di cultura, razza e ceto sociale

Nel trattare qualsiasi aspetto del comportamento umano, vi è sempre l’eventualità che le descrizioni (Ecco cosa significa educare i figli…) o le valutazioni (Ecco come si devono educare i figli…) personali si basino su una visione del mondo non riconosciuta universalmente. Molto di quanto viene dato per scontato rispetto allo sviluppo infantile e altre questioni risulta spesso legato a presupposti di natura culturale e, come tali, suscettibili di contestazione.
Il contenuto del libro è necessariamente influenzato dal fatto che io sia un americano bianco e di ceto medio. Come potrebbe, e dovrebbe considerare quanto scrivo un individuo che non condivida tali caratteristiche?

Quand’anche fossi esperto di princìpi e pratiche genitoriali di tutto il mondo, e non lo sono, non sarei in grado di render giustizia, in questo contesto, all’ampia letteratura scientifica esistente in materia. Esistono enormi differenze tra gli assunti sull’infanzia e su cosa si intenda per corretto accudimento, compresi la frequenza, il momento e le circostanze in base a cui punire, o ragionare, con i figli. Un antropologo, ad esempio, descrive lo stupore dei membri di una tribù Gusii del Kenya sud-occidentale alla notizia che le madri americane lasciano piangere i neonati addirittura alcuni secondi:
“Per loro la prevenzione del pianto di un neonato attraverso il costante contatto fisico non è solo un accorgimento di valenza pragmatica, ma altresì un dettame di ordine morale riguardo il comportamento materno”1.