Punizioni… controllo… educazione autoritaria… negazione dell’amore… affetto condizionato - concetti che si sovrappongono l’uno sull’altro.
È il primo di questi, tuttavia, il più familiare e quello di più immediata comprensione. Punire un bambino è, semplicemente, fargli qualcosa di sgradevole - o impedirgli di provare un’esperienza gradevole - di solito con l’obiettivo di indurlo a modificare il proprio comportamento per le volte successive. Chi punisce, in altri termini, arreca una sofferenza perché se ne tragga insegnamento1.
Alcuni elementari dubbi circa la ragionevolezza di un approccio del genere sorgono ancor prima di confrontarsi con i risultati prodotti dalla ricerca scientifica. Potremmo, ad esempio, chiederci “In quale misura è possibile che la volontà di rendere infelice un bambino si dimostri, alla lunga, vantaggiosa?”, o ancora “Se le punizioni sono tanto efficaci, allora perché mi ritrovo a dover punire mio figlio di continuo?”.
Le ricerche a nostra disposizione non alleviano in alcun modo questi dubbi. I risultati di uno studio pubblicato nel 1957 sembrano prendere di sorpresa gli stessi autori. Dopo un’attenta revisione dei dati ottenuti dall’osservazione di un gruppo di bimbi dell’asilo e delle loro madri, i ricercatori affermano che “le tristi conseguenze delle punizioni hanno fatto da tetro filo conduttore della ricerca”. Le punizioni si sono rivelate controproducenti sia che il genitore vi ricorresse per interrompere un comportamento aggressivo, o per l’eccessiva dipendenza, la pipì a letto e quant’altro.
Gli autori della ricerca continuavano a ricevere conferma del fatto che le punizioni si dimostravano “un metodo inefficace nel lungo periodo per la rimozione del comportamento al quale veniva rivolto”2. Studi più recenti e organizzati non hanno fatto altro che rafforzare tali conclusioni, rivelando, ad esempio, come i genitori che “puniscono i figli per aver infranto le regole a casa si ritrovano spesso con figli che hanno una forte tendenza a infrangere le regole fuori casa”3.