Introduzione

Ancor prima di avere figli sapevo che essere genitori sarebbe stato tanto impegnativo quanto gratificante. In realtà, non lo sapevo davvero. Non sapevo quanto sarebbe stato stancante, quanto mi sarei sentito inadeguato, o quanto, arrivato al limite delle mie forze, avrei dovuto trovare la forza di andare oltre.

Non capivo come, a volte, se i tuoi figli piangono tanto forte da indurre i vicini a chiamare i Servizi Sociali è solo perché a cena hai messo loro nel piatto la pasta della forma sbagliata.
Non immaginavo che gli esercizi di respirazione appresi durante i corsi preparto si sarebbero rivelati davvero utili solo molto dopo la nascita di un figlio.
Non potevo immaginare il sollievo nell’apprendere come anche i figli degli altri si imbattano nelle stesse difficoltà, comportandosi più o meno allo stesso modo dei miei (e ancor più liberatorio è riconoscere che anche gli altri genitori attraversano momenti bui, quando si scoprono a non apprezzare il proprio bambino, o a domandarsi se ne valga la pena, per non parlare dei tanti altri inconfessabili pensieri).

Il punto è che crescere un figlio non è un gioco da ragazzi. Come dice mia moglie, è un esame sulla tua capacità di affrontare disordine e imprevedibilità - esame per cui non ci si può preparare, e dai risultati non sempre rassicuranti. Titoli e lauree non servono a nulla: quando qualcosa non è poi tanto difficile da fare, dovremmo esprimerci dicendo “Non è mica come crescere un figlio…”.
Una delle conseguenze di tale difficoltà è la tentazione di concentrare tutte le energie nel domare l’opposizione dei figli alle nostre richieste, costringendoli a fare quello che diciamo loro. Se non si fa attenzione, il rischio è che questo diventi il nostro principale obiettivo, schierandoci così dalla parte di coloro che nei figli apprezzano soprattutto la docilità e l’obbedienza a breve termine.
Diversi anni fa mi recai in aereo a una conferenza. Una volta atterrati, non appena il suono del campanello ci segnalò di poterci alzare per ritirare il bagaglio a mano, il mio vicino si sporse verso la fila di fronte alla nostra per congratularsi con i genitori del bimbo seduto davanti a noi, esclamando:
“Ma com’è stato buono durante il volo!”.

Si consideri per un attimo la parola chiave di questa frase. Buono è un aggettivo spesso caricato di accezioni morali. Può essere sinonimo di eticooppure onorevole, o ancora compassionevole. Se riferito ai bambini, invece, spesso il termine sta semplicemente per bravo - o forse per non sei stato un rompiscatole. Quel commento sull’aereo ha fatto suonare un campanello anche dentro di me. Mi sono reso conto che la società sembra volere proprio questo dai bambini: non che siano generosi, creativi o curiosi, ma semplicemente ben educati. Un “bravo” bambino - dall’infanzia all’adolescenza - è quello che non crea troppi problemi a noi adulti.
Con le ultime due generazioni i metodi per ottenere tale risultato saranno pure cambiati: se un tempo i bambini venivano puntualmente sottoposti a crudeli punizioni corporali, oggi capita loro di essere messi in castigo o, al contrario, di ricevere un premio in cambio della loro obbedienza. Ma non si tratta di mezzi nuovi per fini nuovi. L’obiettivo resta il controllo, anche se ottenuto con metodi più moderni. E non perché non vogliamo bene ai nostri figli: ha più a che vedere con il peso schiacciante delle infinite e banali pressioni della vita familiare, per cui mettere i bimbi a nanna o tirarli giù dal letto, infilarli nella vasca o in macchina rende difficile fermarsi un attimo a riflettere su cosa si sta facendo.
Cercare semplicemente di ottenere che i figli facciano quanto viene loro detto rischia di compromettere obiettivi diversi, e più ambiziosi, in serbo per loro. Questo pomeriggio la principale preoccupazione riguardo vostro figlio potrebbe essere quella di non permettergli di gettare l’intero supermercato nel caos, quando gli verrà negato lo sgargiante scatolone di caramelle camuffate da cereali per la colazione. Vale tuttavia la pena di andare più a fondo: durante i miei incontri con i genitori mi piace iniziare chiedendo loro: “Quali obiettivi a lungo termine avete per i vostri figli? Qual è la parola, o la frase, che vi viene in mente per descrivere come vorreste che diventassero? Come volete che siano da grandi?”
Fermatevi un attimo a pensare a come rispondereste alla domanda.
Quando invito i gruppi di genitori a riflettere sui principali obiettivi a lungo termine per i loro figli, le risposte che ricevo risultano sorprendentemente simili in ogni regione del Paese. Ecco la lista-tipo di uno di questi gruppi: i genitori in questione affermano di desiderare che i loro figli siano felici, equilibrati, indipendenti, realizzati, efficienti, autosufficienti, responsabili, sani, gentili, premurosi, affettuosi, curiosi e sicuri di sé.
L’aspetto interessante di questa lista di aggettivi - e in primo luogo l’utilità della riflessione in merito alla domanda - è che ci spinge a chiederci se il nostro operato è coerente con quello che desideriamo davvero. Le mie azioni quotidiane possono contribuire a rendere mio figlio l’adulto che vorrei? Quello che gli ho detto al supermercato può, ancorché in minima parte, contribuire a renderlo felice, equilibrato, indipendente, realizzato eccetera eccetera - oppure c’è la possibilità che il modo in cui tendo a gestire certe situazioni renda tali risultati meno probabili? Se sì, cosa dovrei fare in alternativa?