capitolo iv

Smartphone e tablet
ai bambini:
effetti collaterali

Uso precoce dei media digitali e dipendenza

Lo smartphone è ormai diventato l’oggetto di cui non si può fare a meno. Ragazzi e adulti ce l’hanno sempre in mano per non perderlo di vista, per sentirlo se vibra, per controllare se c’è campo, per assicurarsi che non si sta perdendo qualcosa di interessante nell’online.


Se non c’è connessione, se il telefono è scarico o se lo si dimentica, molti reagiscono con un senso di panico, di disorientamento, di smarrimento. Gli scienziati hanno coniato il termine nomofobia (no mobile phobia) per indicare l’angoscia da separazione quando il cellulare non è disponibile. Molto più di una protesi, come spesso viene definito, soprattutto per gli adolescenti, lo smartphone è diventato un arto, una parte del corpo da esporre, da sentire. Senza, ci si sente mutilati.


Anche per i bambini sta diventando così. Per molti di loro, abituati allo smartphone come mezzo di soluzione per situazioni varie, sembra impossibile giocare, parlare, inventarsi un gioco creativo, ingannare l’attesa, sconfiggere la noia o riempire i vuoti. Nessuna azione sembra svincolata dal mezzo digitale; per molti bambini, nessuna sfida di crescita o di conquista dell’autonomia viene affrontata “a pelle nuda”, senza il miracoloso smartphone.


Sono tante le app per bambini che “insegnano” loro come fare delle cose, per esempio lavarsi i denti, addormentarsi, giocare, fare i compiti, persino usare il vasino. Al bambino non viene più lasciata alcuna possibilità di sperimentare per prove ed errori, di trovare il modo personale per affrontare le cose, di mettercela tutta e utilizzare le proprie risorse per riuscire.


Come può un oggetto onnipresente e tuttofare come lo smartphone, se usato in modo pervasivo anche dai bambini, non favorire una sua dipendenza?

Lo smartphone è ovviamente il paradigma di tutti gli altri mezzi digitali e di internet in generale. Tutti ormai siamo più o meno dipendenti dalla rete, nel senso che ci affidiamo ad essa per risolvere ogni problema, per soddisfare ogni curiosità, per trovare ogni informazione, per non restare fuori. È difficile che qualcuno ci telefoni per avvisarci di qualcosa; pensiamo ai gruppi scolastici o di lavoro che utilizzano la messaggistica whatsapp per informare.


In senso lato siamo un po’ tutti dipendenti se ci ritroviamo a controllare la posta fin dal risveglio e continuiamo a farlo altre innumerevoli volte durante la giornata, se apriamo sovente la pagina facebook per curiosare, controllare il consenso dettato dai like, per scorrere senza neanche leggere, se non esitiamo a consultare il “maestro” Google alla ricerca di una qualsiasi informazione che potrebbe essere reperita anche in altri modi, per esempio, consultando un’enciclopedia, un manuale, chiedendo a qualcuno, se siamo ossessionati dal bisogno di immortalare tutto e tutti e condividere sui social… e così via.


Il confine tra un uso equilibrato e uno patologico della rete è molto sottile, come succede per ogni sostanza che poi possa creare dipendenza.

Quando internet o lo smartphone diventano un’ossessione, un’idea fissa capace di oscurare altri campi esistenziali come la famiglia, la cura dei figli, il rapporto con il partner, gli amici, il lavoro, il riposo, la cura di sé, allora ci troviamo di fronte a un problema che può assumere le dimensioni di una vera e propria “retomania”.


Fino all’avvento dei mezzi informatici, e soprattutto di internet e poi dello smartphone, il concetto di dipendenza era associato a situazioni pericolose o illegali e alla presenza di sostanze dannose come droga, alcol, fumo. Negli ultimi tempi ci siamo trovati di fronte a nuove dipendenze (new addictions) le quali, pur non prevedendo la presenza di sostanze, generano comportamenti compulsivi nocivi per il soggetto.


I mezzi digitali sono progettati proprio per creare dipendenza: sono accattivanti, facilmente accessibili, facili da usare e imprevedibili, cioè favoriscono situazioni di gratificazione alternate a situazioni di fallimento. Quando si fa una ricerca su internet non sempre si trova quello che si vuole, ma poi tanti altri tentativi vanno a buon fine e questo ricompensa l’iniziale frustrazione. Anche in un gioco, per esempio, qualche volta si perde e allora ci si accanisce per provarci di nuovo, per vincere.


Il fatto che ogni azione, ogni attività della vita reale sia mediata dalla rete e dal dispositivo digitale, crea tutti i presupposti di dipendenza a largo raggio. Il primo a parlare di dipendenza da internet (IAD - Internet Addiction Disorder) è stato lo psichiatra americano Ivan Goldberg, poi ripreso dalla dottoressa Kimberly Young, fondatrice nel 1995 del Center for Online Addiction negli Stati Uniti.