L’accoglienza del secondo bimbo nella nostra società
Che in famiglia arrivi un quarto membro è evento sempre più raro nel contesto italiano e occidentale. Mentre da tempo si parla delle conseguenze della denatalità sul funzionamento sociale e di scomparsa della società fraterna1, si assiste anche a un cambiamento nelle modalità di accoglienza del fratellino in un nucleo che presenta una cristallizzazione delle dinamiche tipicamente triadiche.
Nella generazione precedente, con il passaggio definitivo alla famiglia nucleare, i genitori riconoscevano nella novità un elemento di destabilizzazione per il primo figlio, consapevoli che avrebbe avuto reazioni di territorialità e di gelosia insieme ad atteggiamenti affettivi e di accoglienza. Il grande si sarebbe lagnato, avrebbe fatto la pipì a letto per un po’ e se non fosse stato respinto o ridicolizzato, la cosa si sarebbe esaurita da sé.
Ben diverso il quadro oggi, in cui fare un secondo figlio è una bizzarria accolta con cupi cipigli dal datore di lavoro della mamma recidiva e con stupefatte alzate di sopracciglio dalla corte di amici (Ma riuscirai con due? A me già con uno scoppia il cervello! Non avrai nemmeno il tempo di farti una doccia… e con tuo marito, avete deciso di non guardarvi più nemmeno in faccia?!). A fronte di un’innegabile reazione scoraggiante dall’esterno, i genitori vivono di frequente un ulteriore senso di spaesamento, novità assoluta nel panorama della genitorialità: il timore – che sfiora il senso di colpa – di sottrarre cure al figlio maggiore, finora “centro indiscusso”, che subirà la “scoperta sconvolgente” e “dovrà abituarsi” a dividere amore e tempo con l’intruso. Per il genitore incerto e poco sostenuto dal contesto questo lessico alimenta la sensazione di essersi imbarcato in un’avventura decisamente più grossa e perigliosa del previsto.
Che fare? Come minimo raddoppiare le cure al principino che presto perderà i suoi titoli, moltiplicando il giocattolame. Poi un bel libro sul pancione che cresce: vedi cosa ti aspetta? Prepàrati, perché tra un po’ dovrai (finalmente) mangiare sulla tua sedia e magari startene un po’ più dai nonni. Faccine imbronciate o sbigottite compaiono in questi libri (non tutti, è ovvio), che sembrano costruire ad arte un immaginario collettivo fondato sul senso di inadeguatezza dei genitori ostinati e sul disappunto di chi, volente o nolente, dovrà fare i conti con la marginalità, la separazione forzata nei giorni della nascita e l’esclusione dal clima festivo dell’arrivo dall’ospedale.
Tutto questo sembra eccessivo e tuttavia non va sminuito, perché parla delle richieste della nostra società: la confluenza di tutti gli sforzi di cura sull’unico bene prezioso che è il primo figlio, spesso avuto in età avanzata, rispecchia l’investimento in lunghi percorsi di formazione e nella ricerca di un lavoro adeguato che impone ritmi feroci e chiede disponibilità quasi assoluta a entrambi i genitori, con la conseguente compressione degli spazi di cura famigliari e lo schiacciamento della vita di coppia tra esigenze lavorative e cure al figlio. Viene de plano la delega della cura all’esterno (nidi, ludoteche, babysitter) dove però il sia pur apprezzabile professionismo degli operatori non sopperisce adeguatamente alla solidarietà comunitaria (e i servizi costano carissimo).
A fronte di un contesto così faticoso, in cui i figli diventano prodotti di lusso per adulti fortunati o ostinati, il problema non è l’atteggiamento dei genitori o del primogenito, quanto la scarsa accoglienza sociale sia verso i bambini sia verso i genitori che decidono di aprirsi di nuovo alla vita. È su questo piano allora che va letto lo strano timore di mettere al mondo un altro figlio ed è su questo piano che bisogna agire con un lavoro sociale di apertura nonviolenta dell’intera società al tu dei piccoli.
Gabriella Falcicchio
ricercatrice in Pedagogia, Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”