Qualche anno fa fui invitata a parlare a un gruppo di neogenitori sul tema dell’attaccamento nei bambini piccoli.
Il salone in cui si svolgeva l’incontro era gremito di madri che allattavano o cullavano i neonati per farli addormentare, o cambiavano pannolini.
Trasportini, passeggini e borse per il cambio erano ammassati gli uni sugli altri, con copertine che straripavano da tutte le parti. Meredith, la
coordinatrice del gruppo settimanale di sostegno, invitò i genitori a prendere posto seduti in cerchio; esordì con un caloroso benvenuto e chiese a
tutti come andava. Alcuni risposero che erano finalmente usciti di casa, altri che erano riusciti a farsi una doccia e altri ancora replicarono che
l’allattamento stava migliorando. Una madre dall’aria stanca prese la parola e disse: “La mia bambina piange ogni volta che la metto giù. La allatto
finché non si addormenta, ma appena la sistemo nella culla si sveglia. Sono esausta!” – più d’una annuì e sospirò mentre Meredith le rispondeva: “Sì, è
dura, vorreste un po’ di riposo ma loro hanno un bisogno costante della vostra presenza!”. Seguirono altri cenni di assenso, prima che Meredith
proseguisse dopo una breve pausa: “Immagino che debba essere dura anche per i bambini, sono in una fase di transizione, da che erano dentro di voi tutto
il tempo e sentivano il vostro calore, il battito del vostro cuore, si ritrovano, ora, a non sapere più come riuscire a restare sempre accanto a voi
come prima.” La stanza si fece silenziosa per un istante e mi ritrovai a pensare alla prima volta in cui anch’io ero diventata madre; riuscivo a
percepire in modo viscerale tutta l’apprensione, l’agitazione e la stanchezza di quelle madri.
Meredith mi diede allora il suo benvenuto formale di fronte all’assemblea dei genitori, dicendo di avermi invitata per parlare dell’attaccamento.
Enfatizzò l’importanza della relazione umana e disse che il processo di attaccamento era già in via di sviluppo fra gli astanti e i loro piccoli. Mi
aveva avvisata che avrei avuto non più di 15 minuti per trasmettere il mio messaggio, a causa dell’attenzione limitata. Guardai i volti stanchi e
distratti delle madri mentre parlavo di come si presenta un buon attaccamento e di come aiuti la crescita; le mamme erano concentrate e pensierose,
assimilavano il possibile mentre rispondevano ai bisogni dei neonati.
Mi fermai dopo 15 minuti e chiesi se ci fossero domande. Una mamma con un bimbo tutto accoccolato in braccio mi guardò e disse. “Cosa dovrei fare per
disciplinarlo?” - fui presa alla sprovvista, cosa mai poteva aver fatto il neonato per dover essere disciplinato? La mia faccia aveva certo tradito la
sorpresa perché lei si affrettò ad aggiungere: “Voglio dire, come farò quando sarà più grande?”. In realtà la sua domanda non era molto diversa dalle
molte che io stessa mi ero posta da neomamma, o che di solito mi vengono poste dai genitori. Di norma, iniziano tutte nello stesso modo: “Come devo
comportarmi quando il bambino fa la tal cosa o la tal altra?” - se non ascolta, se non vuole andare a dormire, se fa male al fratellino o alla
sorellina? Eppure, mentre osservavo quel salone straripante di nuova vita, mi sentii a disagio per quella domanda. C’era qualcosa di ben più necessario
che avrei tanto desiderato mi fosse chiesto. Avrei sperato che quella mamma mi domandasse quali fossero i segreti per crescere bene un figlio e
svilupparne tutto il potenziale umano. Avrei voluto condividere con lei le meraviglie della crescita e il ruolo che le sarebbe spettato. La sua domanda
sulla disciplina poteva ricevere una risposta solo dopo aver considerato in che modo i più piccoli prosperano e fioriscono. Avrei voluto fare un passo
indietro rispetto al bisogno di sapere cosa fare sul momento e considerare invece cosa avrebbe dovuto fare per creare le condizioni di un sano sviluppo.
Avrei preferito concentrarmi sulla maturità come risposta ottima e necessaria all’immaturità, e su come il compito del genitore sia fatto di pazienza,
tempo e cure premurose.
Il messaggio che volevo trasmettere non era del genere che i neogenitori ascoltano di solito. Volevo svelare che il segreto per crescere un figlio non è
quello di avere tutte le risposte, bensì quello di essere la risposta. Volevo condividere il fatto che la genitorialità non è qualcosa che si impari da
un libro, per quanto i libri possano essere utili quando si cerca di capire come è fatto un bambino. Desideravo esprimere l’idea che a fare i genitori
non si impara dai propri genitori, sebbene quelli bravi siano degli ottimi esempi. Intendevo riaffermare che le cure appropriate per un bambino non
conoscono diversità di genere, di età o di etnia. Speravo di rassicurare tutti che i loro sentimenti di colpa, responsabilità, paura e cura non erano
altro che il pilastro emotivo e istintivo su cui poggiare quella genitorialità di cui i figli avrebbero avuto bisogno. Tenevo molto a far capire che
ogni bambino ha bisogno di un luogo tranquillo in cui poter giocare e crescere. Questo non significa essere genitori perfetti, né conoscere il da farsi
in ogni istante. Ciò che serve è una forte spinta a voler essere il meglio per un figlio e a voler creare le condizioni per favorirne la crescita.