Ricordo che, quand’ero bambina, ad ogni febbre o malattia infantile, me ne stavo al caldo sotto le coperte ad
ascoltare le fiabe col mangianastri. Mia mamma mi teneva a casa da scuola finché non mi fossi ripresa pienamente dal mio malessere. Era insomma anche un
tempo di riposo e di pausa dai ritmi quotidiani.
Oggi questo non avviene quasi più. Gli adulti si rimpinzano di medicine per non perdere neanche un giorno di lavoro e imbottiscono di farmaci anche i
loro bambini a cui raramente concedono i meritati giorni di convalescenza domestica.
Quante volte ho avuto richieste di certificati per far riammettere a scuola piccolini di pochi anni che solo il giorno prima avevano avuto 39° di
febbre!
Oggi come oggi sembra non esserci più tempo per ammalarsi e per riprendersi dalla malattia prendendosi cura di sé.
La mancanza di una rete familiare di supporto e le esigenze sempre più pressanti del lavoro costringono a volte a soluzioni non desiderate anche chi
vorrebbe fare diversamente.
Tanto meno si ha il tempo – e a volte la voglia – per interrogarsi sul significato del proprio malessere.
Così la malattia, nelle società industrializzate, resta ancora una grande incompresa: la si vive come uno spauracchio o come un tabù, non sapendo
cogliere i doni nascosti che essa porta con sé.
Ma nulla nella vita è solo buono o solo cattivo: ogni medaglia ha il suo rovescio, ogni situazione ha più aspetti contraddittori. Non esiste la luce
senza il buio o il giorno senza la notte: è la legge della polarità, uno dei pilastri portanti dell’universo stesso. Tutta la creazione è basata sul
due, su coppie di opposti: “Ogni cosa al mondo sono almeno due” diceva un saggio nativo americano.