Accenditi come lampada, nella tua vita dovrai essere Luce
R. Tagore
Chi persevererà fino alla fine questi sarà salvo
Vangelo
La perla è un tempio costruito dal doloreintorno a un grano di sabbia
G. K. Gibran
PARTE terza - La salute del bambino
Accenditi come lampada, nella tua vita dovrai essere Luce
R. Tagore
Chi persevererà fino alla fine questi sarà salvo
Vangelo
La perla è un tempio costruito dal doloreintorno a un grano di sabbia
G. K. Gibran
Ecco quindi, come conclusione di questo volume, che non vuol essere altro che una camminata insieme, come compagni di viaggio, attraverso i paesaggi dell’Anima, il dono di una biografia rivisitata ed elaborata per farne una storia di speranza e di Luce per tutti. Così da cogliere il suggerimento di C. Pinkola Estés: “Guardate il reale che vivete. I racconti là ritrovati non possono proprio venire dai libri. Vengono dai resoconti di testimoni oculari. …Deve esserci un po’ di sangue, e in molti casi tanto, versato su ogni storia, se deve portare una vera medicina. …Andate e lasciate che le storie, ovvero la vita, vi accadano e riversateci sopra il vostro sangue e le vostre lacrime e il vostro riso finché non fioriranno, finché non fiorirete. Questa è l’opera. La sola opera”.1
Quella che sto per raccontarvi è una storia vera. I miei colleghi medici la chiamerebbero “caso clinico” ma io che, oltre ad essere pediatra, sono una scrittrice preferisco chiamarla una storia. Questa è una storia vera che però potrebbe iniziare come le fiabe con un “C’era una volta…” e che come tutte le fiabe finisce con un “E vissero tutti felici e contenti…”
Il protagonista, il piccolo eroe di questa storia è una bambina. Anche qui i medici la chiamerebbero embrio-feto ma per me è una bambina. È una storia che dimostra quanto sia grande la resilienza fetale ossia la capacità dei bambini fin da piccolissimi di resistere ai traumi. Perché questa bambina di traumi (non fisici ma psicoemotivi) nella sua vita prenatale e neonatale ne ha vissuti molti: è quella che, nel linguaggio medico, potrebbe essere definita una “politraumatizzata”…
Come ci ricorda Ferrucci, la parola resilienza viene dal latino e si riferisce ai metalli: “significa riprendere la propria forma dopo aver subito una percussione. Essere resilienti vuol dire sapersi rialzare quando si è scaraventati a terra; dopo aver patito l’attacco di circostanze avverse, rimbalzare più forti di prima.” Vuol dire essere capaci “di affrontare le sfide terribili della vita trasformandole in occasioni di crescita”. Vuol dire essere capaci di resuscitare: proprio come l’Araba Fenice anche noi – dice sempre Ferrucci – “possiamo sì morire, soffrire, essere calpestati e lacerati, insultati, vilipesi e abbandonati. E scendere nel buio profondo della morte. Ma lì possiamo trovare le forze per ritornare più forti e vitali di prima”.2