quarta parte - xii

Il villaggio

Serve un bambino per fare un villaggio.

Manitonquat

Avevo tre obiettivi nello scrivere questo libro. Prima di tutto far sì che più persone venissero a conoscenza del magnifico lavoro sulla relazione con i bambini che negli ultimi quarant’anni è stato portato avanti da molti esponenti della comunità internazionale del Re-evaluation Counseling, ispirati soprattutto da Tim Jackins e Patty Wipfler, i cui scritti sono citati in bibliografia. Il loro lavoro è alla base di gran parte dei laboratori familiari e dei campi che mia moglie e io conduciamo, al momento, in undici Paesi.


Il mio secondo scopo, fulcro del precedente capitolo, è di promuovere e sostenere la liberazione dei genitori e sviluppare una coscienza in tal senso.


Spero che i precedenti undici capitoli vi siano tornati utili nella cura dei vostri bambini, e se è così sono soddisfatto che questo libro abbia realizzato le mie intenzioni. Ma la mia terza aspirazione è quella che alberga nel più segreto del mio cuore, ed è ciò che rende unico questo testo.


Sarà oggetto dell’ultimo capitolo, è la mia aspirazione suprema. Incoraggiare una prospettiva di sviluppo del villaggio necessario a far crescere un bambino. Il capitolo precedente ne suggerisce gli inizi attraverso la possibilità che i genitori si uniscano per ascoltarsi e sostenersi. Questo capitolo indicherà il modo per far progredire ancor più la concezione di questo villaggio, fino a una comunità di persone i cui destini siano intrecciati gli uni agli altri, ai bambini, alla terra, da un punto di vista che sia ecologico, culturale, spirituale.

Per questo mi piace rovesciare il famoso detto trasformandolo come poco sopra: serve un bambino per fare un villaggio. La forza centrale nella vita di due genitori (e nel futuro dell’umanità) sono i bambini. Le vecchie tradizioni del Nord America ci insegnano che dobbiamo preoccuparci non solo delle vite di figli e nipoti, ma anche di quelle di tutte le generazioni che devono ancora nascere e che verranno dopo di noi.


I bambini hanno il potere di darci le gioie più grandi, ma anche dolori immensi. Sono loro che ci causano i mal di testa peggiori e i più intensi timori per ciò che potrebbe accader loro. È per loro che la gran parte di noi ha paura nelle notti insonni, lavora duramente di giorno per procurare una casa confortevole, un’istruzione e un buon inizio nella vita. Per loro facciamo sacrifici e spesso limitiamo la nostra libertà personale e il nostro piacere.


La prospettiva che vengano cresciuti da un’intera comunità, da persone legate strettamente le une alle altre e dedite a tutti i bambini, unite nel gioco e nel lavoro, che si prestano ascolto reciproco, condividono pensieri, valori, sentimenti e celebrazioni – questa visione, appunto, svela e contrasta l’oppressione dell’isolamento e della separazione nella quale ciascuno di noi, genitore e non, lotta in solitudine.


E se consideriamo che nella preistoria di ogni cultura era la comunità, la tribù, il villaggio che meglio sostenevano l’accudimento dei giovani esseri umani e dei loro genitori, a buon diritto possiamo desiderarne il ritorno. Se i nostri figli sono centrali per la nostra esistenza, potremmo sentire l’urgenza di considerare se e come costruire un simile villaggio nella nostra vita.


Se ci riusciamo, sarà un motivo in più per gioire e celebrare i nostri figli. Noi adulti siamo separati, bramiamo la vicinanza e il sostegno, ma disperiamo di poterli mai avere. Costruire un villaggio per i bambini appagherà anche i nostri bisogni.


Il Villaggio! Ci pensate?

Riuscite a immaginare una cultura di cooperazione, cura e aiuto reciproco? Sapete immaginare di vivere fra persone che lavorano insieme per il bene di tutti? Non solo per la comunità degli uomini, ma anche per gli animali e le piante, per tutta la grande famiglia che abita la Terra? Potete immaginare di vivere con persone che si ascoltano davvero, si fidano le une delle altre e amano i bambini degli altri e i propri? Persone che sanno cosa danno da mangiare a tutti questi bambini poiché lo autoproducono, cibo libero da additivi chimici nocivi e pericolose modificazioni genetiche.


Molti di voi penseranno che si tratti della solita utopia da sognatori – una vuota promessa. Allora è necessario che sappiate che in tutto il mondo, per quanto di rado se ne parli, tutto questo sta già avvenendo. Comunità di questo tipo esistono in ogni continente, in America del Nord e del Sud, in Europa, in Africa, in Asia, Australia, così come in Nuova Zelanda e in altre isole nazioni. Potete saperne di più leggendo il mio ultimo libro Have you lost your tribe? dove parlo anche della comunità che creammo nel New Hampshire all’inizio del 1978, la sua storia ventennale e quello che abbiamo imparato. È stata un’esperienza meravigliosa, nata dal nostro desiderio di creare una vita migliore per i nostri figli. Non era certo perfetta, ma era meglio di ciò che ciascuno di noi aveva avuto da bambino, e i nostri figli ci sono cresciuti benissimo.


Da allora mi sono seduto in molti cerchi, ho vissuto in molte comunità, ho aiutato a far nascere comunità e ne ho sostenute molte altre. Continuo a visitarne e a partecipare a molte delle attività che vi si svolgono in diverse parti del mondo, e ad avere contatti con i loro rappresentanti in molte conferenze.


È evidente che da esse è nata una nuova cultura, che si estende a tutte le cooperative di lavoratori, di aziende agricole, di consumatori, di libere scuole alternative, e di altre coalizioni senza fini di lucro fra persone che si uniscono per realizzare obiettivi comuni.


Quando studiamo la storia delle varie culture scopriamo che di tutte si può dire una cosa: mutano. Il cambiamento è inevitabile. In qualunque modo si viva oggi, non è il modo dei nostri nonni, né sarà quello dei nostri nipoti. Predire come si manifesterà il cambiamento è un’attività piacevole ma inattendibile. Tuttavia, possiamo scegliere se vivere attraverso il cambiamento, osservarlo e registrarlo, oppure se prendere parte attiva nel crearlo.


Il modello sul quale, più di quarant’anni fa, ha preso avvio il mio pensiero sui modi in cui questa cultura tratta i bambini, è quello delle comunità tradizionali native del Nord America. Viaggiando molto attraverso il continente negli anni ’60 e ’70 per scoprire la saggezza del mio retaggio culturale, vidi ciò che restava degli antichi modi in comunità che si erano in parte salvate dal genocidio del colonialismo europeo ed erano riuscite a conservare molto degli antichi costumi sul modo di crescere e accudire i loro giovani. Durante i miei viaggi, e anche quando mi stabilii per un periodo, negli anni ’70, presso gli Akwesasne Mohawks, parlai con genitori di bambini e ragazzi delle loro idee e pratiche sul modo di allevarli.


Scoprii che i bambini erano rispettati e, di norma, si aveva fiducia in loro. Non gli venivano fatte prediche, né impartite lezioni o punizioni. Era tutto molto diverso dalla cultura dominante e ne rimasi affascinato. Perciò, quando potevo, trascorrevo il mio tempo con i bambini. Non erano controllati a vista dagli adulti e godevano di molta libertà nei movimenti e nella scelta delle attività, ma i bambini più grandi badavano ai più piccoli per la loro sicurezza, e li correggevano se lo ritenevano necessario, non con durezza, ma fornendo delle semplici informazioni, prontamente accolte dai più piccoli che guardavano ai grandi come a modelli da seguire.


Costretti per legge ad andare nelle scuole governative, naturalmente le odiavano, come la gran parte dei bambini. Ma fuori dalla classe e liberi di scegliere fra i loro interessi, imparavano molto in fretta. Chiamavano tutti gli anziani nonna o nonno, e tutta la generazione dei loro genitori zii o zie, così che per uno straniero all’inizio era difficile distinguere fra i membri delle varie famiglie. Erano pieni di energia e di forti entusiasmi, correvano in gruppo, ridevano tanto e organizzavano giochi fra loro con facilità e sveltezza. Erano molto interessati a me perché venivo dal mondo di fuori, mi facevano molte domande sulla mia vita, e quando seppero che ero uno storyteller mi chiesero spesso di raccontare le storie della mia gente.


Dove le comunità native non erano state smembrate dalla ricollocazione, dalla disoccupazione e la povertà, dall’alcol e dalle droghe, ma avevano potuto conservare una considerevole autonomia, si poteva star certi che i bambini avrebbero mantenuto il rispetto per gli adulti, poiché il rispetto era ciò che avevano ricevuto e che conoscevano.


Poiché la maniera in cui Emmy e io volevamo trattare i nostri figli rispettandoli appieno era controcorrente rispetto a ciò che osservavamo nel mondo attorno a noi, comprese le comunità intenzionali e spirituali che avevamo visitato, e poiché esisteva solo un’altra persona della mia stessa nazione pronta a ricreare e a vivere in un villaggio tradizionale nativo, decidemmo di costruire una comunità nostra. Decidemmo di provare a cercare altri che desiderassero essere rispettosi dei giovani in tutto e per tutto, e far loro da guida in virtù di un legame anziché di modalità coercitive. Sebbene nessuno di noi fosse cresciuto in un’atmosfera simile, riuscimmo a raggiungere l’obiettivo più importante accordandoci sulla necessità di ascoltare i bambini e noi stessi.


Quel periodo è ormai trascorso. I nostri figli, che sono cresciuti e andati al college mentre vivevamo in quella comunità, sono diventati genitori loro stessi e hanno viaggiato molto – uno vive in Guatemala con la moglie e il figlio, l’altro a Berlino, in Germania, con la moglie e una figlia. Come vi ho già detto con sfacciata ammirazione, sono entrambi padri esemplari, premurosi e attenti, nonché mariti modello.


Oggi nel mondo esistono moltissime comunità intenzionali, il nostro primo figlio è nato in una di queste: The Farm, nel Tennessee. Ho molti buoni amici che vivono in altre comunità negli USA, in Danimarca, in Norvegia, in Finlandia, in Germania, in Austria, in Italia, in Portogallo, e ne ho conosciuti molti altri in terre lontane nel mondo. Ne esistono di tanti tipi, tutte diverse. Talmente tante che ci vorrebbe molto tempo per visitarle tutte. Esiste una città spirituale in India che sta ancora crescendo, e una comunità anarchica a Copenhagen (dove mia moglie Ellika ha una casa dal 1979). Molte di queste sono state fondate negli anni ’70 e stanno ancora evolvendo, potrete scoprirne molte attraverso il Global Ecovillage Network.


La comunità che abbiamo fatto crescere nel New Hamshire, Mettanokit (Nostra Madre Terra), era eccellente ma troppo piccola per essere un vero villaggio, avendo avuto una media di 15-25 adulti più i bambini. The Farm negli USA e Tamera in Portogallo, le mie preferite, ne hanno circa 200. Christiana a Copenhagen ne ha circa 850, Damanhur in Italia circa 1.000 e Auroville in India si aggira sui 2.300.